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Petrassi Chiara

Page history last edited by Chiara 12 years, 4 months ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Mi viene da pensare all’importanza della consapevolezza di quel che il film vuole proporci, all’importanza del riuscire a riconoscere i limiti dei medici e della medicina se male utilizzata, del saper riconoscere ed ammettere la non umiltà e la non volontà di riportarsi coi piedi per terra, sebbene il gradino più alto su cui spesso ci auto-innalziamo faccia più gola. Mi viene da pensare all’importanza della completezza e dell’insieme, nel medico, e alla conseguente necessaria apertura mentale fatta di orizzonti più ampi e vedute dall’alto. E allora penso anche alla necessità di attività come questa, del cineforum, e di molte altre che ancora non ci sono ma che ogni aspirante “dottore” dovrebbe trovare la voglia di scoprire da solo.

Se guardo all’università oggi ed in particolare alla nostra facoltà, vedo tanta frenesia, tanto ritmo, tanta tensione, tante corse, tanto bisogno di ritagliarsi continuamente sempre più spazio per studiare, studiare, studiare; sempre più tempo per dedicarsi ai libri in funzione dell’ottimo risultato all’esame imminente. E così vedo tanti saltare lezioni per correre in biblioteca a studiare o lamentarsi delle attività extra proposte perché apparentemente ulteriori ladre di tempo. Questo tempo che sembra non bastare mai per la preparazione che ci è richiesta. E quello che penso è che negli anni lo studente si abitua ai libri, alla ripetizione, alla memoria, alle nozioni ma di fatto si svincola dal contesto più vero della medicina, per diventare uno studente eccellente ma chissà cos’altro.. probabilmente un futuro preparatissimo medico ma chissà poi quanto in grado di sfruttare il suo sapere per fare quel bene che ognuno di noi si auspica.

Mi guardo attorno e noto poca voglia di confrontarsi, di aprirsi al dialogo (forse spesso dettata da una effettiva mancanza di tempo che porta a pensare a tutto ciò che non è studio come a una inutilità impegnativa e deviante dal programma preciso) e questo osservabile a partire dal disinteresse per i già medici e le loro lezioni, con il risultato di allontanarsi da chi, con più esperienza, può darci e aiutarci nel percorso. Ho paura che questa chiusura e questo unico interesse verso il nostro tragitto e l’infallibilità di esso ci porti domani ad una più grave chiusura, verso altri medici e soprattutto verso i pazienti, con l’incapacità quindi di ascoltare, di carpire, di osservare, di condividere, di fare gioco di squadra, di saper chiedere aiuto, di saper tornare sui propri passi ammettendo errori. Temo gli errori ma temo molto di più la cecità che porta a non accorgersi di essi né ad ammetterli, seguita poi dall’impossibilità di porvi rimedio.

Vorrei saperli sfruttare questi momenti di condivisione, questi, gli unici in cui i libri rimangono fuori e si lascia spazio alla testa, non intesa come capacità di apprendere, quanto piuttosto di ragionare, di riflettere, di proporre, di partorire idee, iniziative. Questi momenti in cui si prova ad osservare bene il lavoro degli altri con tutti i passi falsi che porta con sé, per prendere spunti e lezioni importanti; questi in cui si prova a vedere al di là della semplice nozione e ad imparare a relazionarsi alle persone ed al loro diverso approccio di procedere e di risolvere. Questi in cui ci si mette tutti un po’ a disposizione degli altri per scoprirsi nessuno invincibile e nessuno impeccabile, nessuno medico nato, tutti su una strada che comporterà un continuo lavoro e una continua revisione di sé; affinché nessuno si senta mai in cima, arrivato, primo ma sempre in viaggio, sicuro di quello che fa e che sa ma intelligente al punto di desiderare sempre di correggersi e sentirsi correggere.

Mi auguro di poter avere sempre infiniti stimoli nel mio percorso di studi, che vadano anche al di là del semplice fatto di studiare e di studiare medicina, ma che comunque mi permettano di non perdere mai la curiosità di imparare cose nuove, di rapportarmi con persone diverse, di ascoltarle nei loro racconti e nei loro silenzi, di cogliere quelle sfumature di cui troppo spesso, per fatica e fretta, non ci si cura e di saperle poi un giorno mettere a frutto in un lavoro che, fatto senza presunzione né esaltazione, possa realmente aiutare qualcuno.

L’augurio che Ci faccio è quello, un giorno, di poter guardare a noi stessi per vedere tanti medici-uomini, in grado quindi di svolgere il proprio mestiere con la sensibilità e l’occhio di chi viene curato, non solo di chi cura. Nella speranza, concludendo, andando al cinema, di non ritrovare la nostra spiacevole immagine crudamente riflessa nello schermo; nella speranza di non doverci scoprire racchiusi in una bolla di vetro impenetrabile tanto al paziente quanto a noi, noi che, intenti a prescrivere inutili farmaci, vincolati ai nostri limiti, ci sottraiamo da soli la possibilità di guardare lontano e vedere tanto di più.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

La riflessione che viene più spontanea ed immediata è quella relativa ai rapporti medico-paziente,  medico- medico, medico-se stesso.

Il film mette a nudo alcuni aspetti della medicina assolutamente veritieri e preoccupanti. Da un lato il medico chiuso nelle sue convinzioni di superiorità, di sapere assoluto e indiscutibile, nella sua apparente infallibilità e onnipotenza, nell’ auto-convinzione di possesso della verità e nell’incapacità di avere una visione aperta e completa della malattia e del contesto, chiuso com’ è nell’orticello recintato dei propri specifici studi  . Dall’altro, il solito medico, per di più freddo, tecnico, distante dal paziente e dal suo disagio. 

Il presupposto mancante, base di molti degli errori ed orrori oggi protagonisti della medicina, è la necessità di umiltà,di autoanalisi ed autocritica, in quanto medici ed in primis persone.

Gli studi medici portano spesso a sentirsi grandi con niente e a pensare di fare bene e di essere bravi fin dall’inizio, perché studenti capaci e devoti ai libri. E questo senso di grandezza rimane anche nel dopo, nella parte più importante, quella in cui ci si va ad occupare di pazienti veri, non più di testi. L’eccessiva sicurezza in se stessi e l’idea che sia impossibile per noi, a differenza di altri, commettere errori ed imprudenze sono molto presenti e molto rischiose. Ritenere di essere infallibili porta a lavorare con poca attenzione e poco controllo; l’assenza di paura dell’errore porta spesso a sbagliare perché cancella lucidità e obiettività, cancella la critica verso il proprio operato. E così il medico si ritrova a diagnosticare e a prescrivere farmaci inutili solo perchè "suoi" in una sorta di inconscio desiderio di conferma della precedenza del proprio ramo specialistico sugli altri. Di qui quindi un rapporto medico-se stesso troppo poco supervisionato ed un rapporto medico-medico per lo più inesistente se non addirittura spesso competitivo negativamente. E la tendenza dunque a sminuire e a scavalcare le indicazioni di altri, imponendo il proprio metodo a prescindere, l'incapacità di fare gioco di squadra non chiedendo pareri e conferme, il disinteresse verso il percorso precedente che ha portato il paziente a consultare proprio te e verso la possibilità di incrociare dati e comprendere così il perchè dell'insuccesso della terapia fin qui. Dunque non una medicina globale, non un medico ma uno specialista che chiude le porte a tutto il resto e partorisce diagnosi egoistiche, quasi più per sé che non per l'effettivo bisogno del paziente. Cito l'espressione di una ragazza durante la discussione sul film: " Si adatta il paziente alla diagnosi, non la diagnosi al paziente". Condivido.

In più.. nel film vediamo il protagonista uscire dallo studio medico senza che il dottore si accorga della sua assenza, completamente concentrato su di sé, del tutto distante dal paziente. Evidenziato quindi il non ascolto, la non proiezione verso l'altro.

Un'altra cosa salta all'occhio, fin da subito, che poi è correlata con quanto detto fin qui. Quei medici non ascoltano, e questo si è capito, ma non ascoltare comporta non capire e così non mettere a proprio agio, non aiutare ad aprirsi e a sentirsi aiutato. Il paziente rischia di sentirsi estraneo in una situazione in cui in realtà dovrebbe avvertire vicinanza, aiuto. Spesso il medico prende le sue decisioni senza consultarlo, senza dargli spiegazioni, senza coinvolgerlo in quello che succede, senza far capire la gravità o la non gravità dei fatti. Ed è questo, senza dubbio, un altro problema da non sottovalutare: è normale che il medico si trovi in una posizione di leggero distacco, non fosse altro che per le sue competenze ed il fatto che ha lui il ruolo di guarire, di risolvere, di far star bene. E' normale che questo distacco parzialmente faccia anche bene, il paziente ha bisogno di una persona sicura di sé, che sappia quello che fa e che sappia infondergli fiducia e tranquillità. Ma le vie di mezzo non andrebbero dimenticate: il medico aulico, tecnico, oratore complesso, non serve a chi chiede aiuto, nascondersi dietro un linguaggio forbito ed un atteggiamento sfacciatamente gelido e superiore mette un muro fra le due parti, escludendo il paziente incapace di comprensione. E così vediamo il nostro protagonista, metafora di tutti, nel tentativo di leggere i risultati di esami in cui tutto è una parola indecifrabilmente medica. E il contributo è solo in negativo, nel far sentire chi già ha un problema, una paura, ancora più solo nel suo disagio.

Penso in definitiva che non dovremmo mai dimenticare quel filo trasparente ma essenziale che lega medico - medico paziente - paziente, in grado di ridimensionare il ruolo, i doveri, le necessità, le paure, le sensazioni di tutti da qualunque delle campane si voglia osservare il problema.

Che poi alla fine nessuno sarà mai medico soltanto.

La linea fra paziente e non è molto sottile.

 

 

 

 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

"Sappiamo tutti quanto sia importante l'amore, eppure, con quale frequenza viene provato o manifestato veramente?
I mali che affliggono la maggior parte dei malati, come la sofferenza, la noia e la paura, non possono essere curati con una pillola.

I medici devono curare le persone, non le malattie"  Patch Adams.

La maggior parte di noi penso conosca questo film, ma dopo "Caro diario"  è arrivata tanta voglia di rivederlo. Per chi ancora non avesse avuto occasione, provi a trovare il tempo di guardarlo!!

 

Metto il collegamento a un sito in cui ho trovato una panoramica di quello che più o meno penso, anche se non completamente ma in sufficiente quantità; è scritto forse in modo  più chiaro di quanto io non sappia fare. Lo considererei una sorta di rapido resoconto(anche se molto semplificato, al limite del semplicistico), comunque efficace, di quanto emerso dal film.

http://www.pnlinpratica.com/articoli-di-pnl/salute-e-benessere/152-la-comunicazione-medico-paziente.html 

 

Tanto per esasperare il concetto e auto-metterci  in guardia....

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Vorrei fare un'unica ampia riflessione, rimando per questo motivo direttamente alla seconda domanda, sperando di riuscire a condensare in essa la risposta ad entrambe. Anticipo solamente una piccola cosa.

Rileggo l'ultima parte della mia riflessione su "Caro diario" e mi accorgo di quanto tutto sia collegato, continuo, inscindibile. Il mio pensiero era partito in un modo ed era arrivato alla seguente parziale conclusione: "Che poi alla fine nessuno sarà mai medico soltanto. La linea tra paziente e non è molto sottile. "

Trovandomi adesso a riflettere su questo nuovo film, non posso che ripartire esattamente da qui. E questo dà molto l'idea di quella che vorrei fosse la professione medica, una totalità, una completezza, un insieme di tutto. Una continua pentola di spunti, considerazioni, attenzioni, sempre in ebollizione, in cui una per volta tutte vengano a galla, nessuna svincolata dalle altre, tutte relazionate e assolutamente inseparabili. In cui mai ci si dimentichi qualcosa nell'affrontare qualcos'altro ma anzi, in cui si riesca a tenere presente sempre tutto, o il più possibile, e sempre in modo critico. In cui l'essere medico possa esser visto nell'ottica di un grande cerchio in cui tutto ritorna e si ripresenta, anche se in forme diverse, e in cui l'abilità stia proprio nel far tesoro di tutto per sfruttare ogni giorno ogni pezzetto ricostruendo volta volta un puzzle che poi in realtà fine non ha. Perchè alla capacità di imparare, di scoprire, di conoscere, di migliorare, di prendere consapevolezza, di far buon uso degli errori, di mettere insieme i pezzi quindi, non c'è nè ci può mai essere fine. Perchè in medicina, secondo me, è tutto un divenire, un evolversi, un aggiungere. E' un processo in continuo cambiamento e arricchimento.

E per tornare al film, dunque, non riesco a pensare a "Caro diario" e dire "parla di questo", poi a "The doctor" e dire" parla di quest'altro", perchè per me sono nettamente correlati, trovo infinite intersezioni e spunti comuni, cerchi che si aprono e che si chiudono, domande e poi risposte. Ed è il bello delle immagini, ti aiutano a collegare in un unico grande pensiero quello che a volte la mente tende a catalogare per settori. Ma la medicina non ha settori (per quanto le singole specializzazioni tendano a volersi distinguere..ricordiamo il dermatologo di Moretti?), è unica e tutta insieme.

Va osservata e analizzata dall'alto per riuscire a vederne prima l'insieme, poi il dettaglio e per sperare di farsi sfuggire il meno possibile. 

E a mio avviso, per riuscire a farlo, la riflessione da cui  partire deve avere le sue solite caratteristiche: unica, globale, circolare.

Riprendo così da dove ero rimasta.

La visione del film che riflessioni indotto sulla tua idea della professione medica?

 

 "Che poi alla fine nessuno sarà mai medico soltanto".
Ed infatti.
La storia è quella di un medico indifferente, quella di un medico pieno di numeri non di pazienti, di un chirurgo che aggiusta macchine non persone, cura malattie non malati; quella di un medico che si scopre malato, di un medico malato che si imbatte in altri medici indifferenti e cinici che lo lasciano solo, quella di un medico malato non più tanto indifferente che rivede se stesso negli altri medici indifferenti avendone orrore e che al contempo scopre l'altro lato della medaglia, l'altra faccia dell'ospedale, quella che molto del personale non vede e non penetra, quella in cui uomini soffrono e, non di rado, soli, come lui adesso; lì si combatte la guerra vera, la più dura, che non ha niente a che fare con quante operazioni di successo si sono portate a casa nè con quanta fama si è ottenuta, nè con quante cause legali si sono vinte falsificando cartelle, ma con la vita e, peggio, con la morte. Ma di questo lato della barricata lui non sa niente.
E'la storia di un malato-medico-amico che impara ad imparare dalla malattia e dalla forza che altri hanno nell'affrontarla, che impara a dare forse per la prima volta la giusta importanza alle cose piccole e grandi, al tempo, alle relazioni. E' la storia di un malato-medico-marito che riscopre a piccoli passi il piacere dell'affacciarsi al di là del proprio egoismo e della propria auto-esaltazione, un malato-marito-padre che impara da capo la comunicazione e l'aprirsi agli altri, l'amare di nuovo, l'ascoltare, un uomo che scopre la difficoltà e l'importanza di chiedere aiuto e di saper sentire davvero gli altri quando ce ne chiedono.
E' la storia  di un uomo-malato di nuovo medico che, provando a dare un senso vero alla sua famiglia, al suo lavoro, alla sua vita, decide di volgere l'indifferenza in interesse, partecipazione, rispetto.
E' la storia di un medico guarito ma sano solo per la prima volta, solo ora che ha sperimentato cosa si provi a stare prima di qua e poi, all'improvviso, di là, a sentirsi prima infallibili poi irrimediabilmente impotenti.
E' la storia di chi finalmente si vede allo specchio e invece di rimirare la propria superficialità scopre di non andarsi bene e prova con umiltà a ripartire da capo e a farsi migliore.

Non che sia molto diverso da quello che accade nella vita reale, indipendentemente dall'ambiente ospedaliero. Per arrivare a comprendere è necessario sperimentare e provare sulla propria pelle. Ci sono tanti livelli di comprensione ma la consapevolezza piena di una sensazione fisica ed emotiva arriva solo con l'esperienza diretta. E spesso l'esperienza ti sconquassa e ti scardina e ti fa mancare la terra sotto i piedi e fa paura e ci fa vedere per come non pensavamo di essere e ci fa vedere gli altri con ottica nuova e ci fa desiderare il cambiamento. Oppure no. Oppure si, è il caso di McKee. Un esecutore bravissimo ma un dottore estraneo e distante e sarcastico e disattento al paziente, al suo stato d'animo, alle sue paure, al suo desiderio di conforto, di vicinanza, di spiegazione, di comprensione. E' chiuso nel suo tempio di perfezione e non guarda al di là. Ed il suo approccio, davvero tremendo, nasconde una fragilità ed una difficoltà personali molto più forti in realtà di qualunque sicurezza possa ostentare.
Sarà la malattia a smascherarlo e denudarlo prima, a riordinare tutto poi.
Penso che in un percorso di studi come il nostro, così lungo e troppo spesso poco pratico, sia facile isolarsi nella personale stanza fatta di libri, esami, voti e facile limitarsi a credere che l'università sia solo questo e che studiare possa bastare per diventare medici. Quello che ci manca è l'esperienza e il toccare con mano, in concreto e il dedicare tempo ai pazienti e scoprire cosa sia il dolore e in quanti modi diversi possa essere affrontato; manca il lato più umano che ovvio poi andrà saputo gestire al meglio ma la cui assenza rappresenta un grande deficit. E' interessante la soluzione che McKee trova alla fine per i suoi tirocinanti. L'idea di tramutarsi in pazienti per qualche ora e sottoporsi alla routine ospedaliera ha una logica di fondo importante, quella dell'immedesimazione, quella dello sforzo di provarsi a calare nei panni, quella del sentire cosa sente l'altro e forse da questo trarre spunti reali per imparare ad interagire con persone, persone preoccupate, persone spaventate, persone malate. Step diversi e graduali. Non penso si impari mai del tutto l'arte del comunicare e del comunicare bene ma penso ci si possa avvicinare, piano piano, per step, cercando di valutare ad ogni passo una sfaccettatura diversa della condizione di chi ci chiede aiuto. Perchè nessuno è SOLO malato ma la somma di infinite sfumature emozionali.
Penso anche che l'esperienza in ospedale come "finti" pazienti sia in in verità molto utopica e che lo studente possa coglierne il senso solo in parte. Non sarà mai come un ricovero vero, non c'è effettivamente la patologia, dunque mancano l'ansia, la paura, il dolore. E' impossibile riprodurre un contesto reale che possa far riprovare allo studente Quelle emozioni. Non sono troppo fiduciosa nel risultato, ammetto il mio parziale scetticismo.
Immagino comunque possa sortire effetti completamente diversi su ognuno di noi e risultare utile per alcuni, per altri no. Ma se anche dovesse sensibilizzare una persona su cento, allora ne sarà valsa la pena.
Ad ogni modo credo e invito tutti a scavare un pò nella propria storia e a cercare i momenti reali di malattia, di difficoltà, di paura, di disagio, di angoscia, di solitudine, di impotenza, quelli in cui sul lettino c'eravamo noi. E partire di lì, dal nostro.  

 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

 


16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

 

 

 

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30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

 

 

 

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