| 
  • If you are citizen of an European Union member nation, you may not use this service unless you are at least 16 years old.

  • You already know Dokkio is an AI-powered assistant to organize & manage your digital files & messages. Very soon, Dokkio will support Outlook as well as One Drive. Check it out today!

View
 

Melara Ilaria

Page history last edited by ilaria 12 years, 10 months ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Ho trovato la prima esperienza del Cin@med molto interessante. Attraverso tali attività è spesso facile disperdere l'attenzione degli studenti coinvolti. Essi possono considerarla un'inutile perdita di tempo, un'occasione in meno per studiare in vista degli imminenti esami.

Il mio scetticismo al riguardo era, infatti, grande.

Tuttavia mi sono felicemente ricreduta e sono rimasta soddisfatta sia della scelta del film sia della gestione del successivo momento di confronto e di dibattito.

 

Dopo aver visto questa parte di film ho avuto modo di riflettere in primis sulla condizione del paziente.

Ciò che più mi ha colpito è la solitudine dell'assistito nella sua ostinata ricerca delle cause del suo disturbo, ovvero dell'incessante prurito che pervade il suo corpo giorno e notte da settimane. Questo senso di solitudine quasi angosciante è dovuto a più fattori, a mio parere.

Per primo risulta evidente come il rapporto tra medico e assistito sia unidirezionale e sproporzionato in un senso solo, cioè non c'è ascolto da parte del dottore. Sebbene il paziente spieghi correttamente e dettagliatamente i suoi sintomi, il medico dà l'impressione di non curarsene veramente, quasi che le indicazioni dategli non fossero fondamentali per la formulazione di una diagnosi.

Qui arriviamo al secondo punto: al termine di ogni colloquio non c'è una vera diagnosi. Anzi non c'è proprio una diagnosi. Del resto manca la premessa: l'ascolto del paziente relativamente al suo malessere, ai suoi disturbi. Il colloquio si risolve sempre con un lungo elenco di cure mediche senza il benché minimo coinvolgimento dell'assistito. Ovviamente quando il paziente viene messo davanti alla sola terapia senza alcuna spiegazione sulle cause e sulla natura del male, questi viene in qualche modo estraniato ed escluso. Limitarsi a comunicare la sola terapia equivale ad allontanare il paziente da una discussione più approfondita col dottore che dal suo canto, invece, dà così l'impressione di aver risolto il problema.

Quindi la solitudine, che più o meno lievemente può affliggere l'assistito, deriva dalla mancanza di ascolto da parte del medico e dalla insufficienza di interazione con esso.

L'unico momento in cui vi è una sorta di interazione fra i due è quando, come si è già detto, il dottore espone la sua terapia. Nel farlo, però, usa la sola terminologia medica, il solo linguaggio della categoria a cui appartiene, impedendo così di fatto la compartecipazione del paziente che, per altro, dovrebbe essere il più coinvolto.

Inoltre quando l'incontro col medico va al di là del semplice elenco di cure, si possono creare situazioni di imbarazzo per l'assistito che così non viene affatto messo a suo agio. Tali situazioni si ritrovano nella scena del film in cui il protagonista viene fatto spogliare mentre il colloquio continua tranquillamente senza che il medico tenga minimamente conto della componente emotiva e dei sentimenti che il paziente può provare in tale contesto. Sentimenti quali il senso di disagio, la vergogna, l'imbarazzo nel trovarsi in una situazione di inferiorità quale è quella sopra descritta.

 

Tutte queste sono condizioni che, a mio parere, inducono solitudine e isolamento nel paziente e che, quindi, come tali, andrebbero evitate.

 

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Questa parte del film è riuscita a mettere chiaramente in evidenza i maggiori e più diffusi difetti della categoria medica.

Come già detto, una delle più grandi negligenze di certi dottori è l'incapacità di ascoltare chi si reca da loro per essere curato. A questa incapacità si aggiunge troppo spesso quella di non mettere a proprio agio il paziente. È netta, infatti, la differenza fra gli studi dei primi medici dermatologi da cui il protagonista si reca -asettici, spogli, freddi, distaccati- e lo studio dei medici cinesi -accogliente, gradevole, solare, ospitale.

Il medico dovrebbe imparare ad accogliere il paziente e a parlare con lui cercando anche di cogliere i suoi stati d'animo, le parole che non dice e i sentimenti che non esprime. Invece certi dottori commettono tali errori e lo fanno, il più delle volte, per mancanza di umiltà.

Umiltà verso il paziente prima di tutto. Il medico non si mette sullo stesso piano dell'assistito, ma lo osserva dall'alto del suo ruolo sociale. Il medico non si identifica in colui che lo cerca per ricevere aiuto, ma lo studia totalmente privo di interesse per la persona che è.

Poi fa anche difetto l'umiltà verso gli altri colleghi. Spesso quando manca l'atteggiamento critico verso sé stessi e verso le proprie decisioni o i propri pensieri, mancano anche l'umiltà verso gli altri medici e quindi la collaborazione con essi. Alla base dell'assenza di autocritica c'è solitamente l'autoreferenzialità, cioè la tendenza a credere che non ci siano altro che il proprio settore, la propria specialistica e che non ci possa essere integrazione con gli altri campi del sapere medico.

Se i dermatologi che hanno avuto in cura il protagonista si fossero consultati tra loro invece che ignorarsi a vicenda al limite del disdegno reciproco oppure se si fossero rivolti a medici specializzati in altri campi, molto probabilmente il protagonista non avrebbe dovuto subire l'odissea che ha subito per farsi diagnosticare il linfoma di Hodgkin (diagnosi a cui si arriva, fra l'altro, proprio grazie ai quei medici cinesi “[...]carini e gentili[...]” che, sentendo la forte tosse del paziente, gli consigliano una radiografia al torace).

 

Dunque quando avremo imparato l'umiltà prima di tutto, prima di tante altre nozioni certamente altrettanto importanti, sapremo essere dottori e soprattutto donne e uomini migliori.  

 

 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

Dall'opera teatrale "Il malato immaginario" di Molière. Scena terza, atto terzo. Si tratta di una parte della discussione fra Argan, il protagonista che dà il titolo alla commedia, e il fratello Beraldo, molto scettico nei confronti della medicina.

[...]

B.:"E che cosa sanno (i medici), Argan? Oh, sì, sanno moltissimo di scienze umane, sanno il latino, sanno nomenclare le malattie secondo gli etimi greci, le sanno definire e classificare; ma quando si tratta di guarirle, questo è quello che non sanno fare mai"

A.:"In ogni caso, resta che i medici su questo argomento ne sanno più degli altri"

B.:"Sanno, Argan, quello che ti ho detto, il che non aiuta mica tanto a guarire. Tutto il prestigio della loro professione nasce da un gergo pomposo, da un bla-bla fasullo grazie al quale ti regalano parole per argomenti e promesse per risultati".

 

 

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Dopo aver visto questo film, ho avuto modo di riflettere sulle condizioni di vita dei pazienti (in particolare oncologici) oltre che sull'idea della professione medica di cui parlerò successivamente.

Devo dire che la prima amarissima riflessione che ho fatto è stata quella di capire quanto sia stretta la connessione fra soldi e prestazioni mediche. E' esemplificativo il caso di June a cui viene diagnosticato un tumore al cervello in ritardo a causa dell'assicurazione medica: l'unico esame che le avrebbe permesso di scoprire in tempo il cancro costava troppo. Trovo mostruoso che la vita di una persona debba dipendere dalla sua assicurazione medica. Negli U.S.A., oltre che in Sud Africa e in Cina (se ci si limita alle sole nazioni industrializzate), manca completamente una copertura sanitaria nazionale: ciò comporta una frammentazione della rete assistenziale e la costituzione di un notevole numero di cittadini privi di qualsivoglia forma di assicurazione. Questo tipo di sistema sanitario fa sì che la maggiore o minore facilità di accesso alle cure dipenda dal tipo di assicurazione sottoscritta e dal suo costo. Ecco perché June ha scoperto in ritardo il tumore cerebrale. Ecco perché June è morta. Forse la sua assicurazione costava poco e non copriva le sufficienti prestazioni sanitarie. Sinceramente può solo indignare un sistema di questo genere che lucra e specula sulla salute della gente. Non è degno di una società civile del XI secolo che chi più guadagna più chances di vita deve avere. E' semplicemente scandaloso che chi è più povero sia condannato ad avere prestazioni sanitarie ridotte rispetto agli altri. Le cure mediche non dovrebbero dipendere dal conto in banca di una persona. Fortunatamente l'ultimo presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Obama, ha firmato la legge della riforma sanitaria con cui si dovrebbe estendere la copertura del sistema sanitario a più cittadini (32 milioni). Chiaramente si tratta solo del primo passo non ancora sufficiente.  

L'altra riflessione che il film mi ha permesso di fare è stata sullo stato d'animo dei pazienti oncologici. Dal film emerge chiaramente che la malattia è una prova esistenziale sconvolgente sia per il diretto interessato (il dottore Jack MacKee) sia per le persone che gli sono vicine (ad esempio la moglie Anne). Il paziente si trova a dover rivalutare i rapporti verso se stesso, verso la malattia, verso la sofferenza, verso la morte. Deve rivedere le sue relazioni in ambito famigliare, sentimentale e lavorativo. A mio parere, dopo la visione del film e dopo alcune letture precedenti di articoli di Umberto Veronesi, è sempre più necessario un sostegno sociale nel trattamento del paziente oncologico da parte dell'intera équipe curante (dal medico oncologo allo psicologo all'infermiere). Nel film (come nella realtà) i pazienti oncologici sono troppo spesso soli per più motivi. Sono soli perché i membri delle strutture sanitarie non li considerano e li isolano non comprendendo come ci si sente quando si è gravemente malati (basti pensare all'iniziale atteggiamento del protagonista o della dottoressa Abbott) e dimenticandosi che hanno davanti a sé prima di tutto delle persone e non "un computer" come dice MacKee (che ormai ha iniziato a vedere la sua professione in un'ottica diversa). I pazienti oncologici si sentono soli anche perché spesso si chiudono in se stessi e non riescono a comunicare e a chiedere aiuto a famigliari e ad amici, che dal canto loro possono, in taluni casi, provare un certo imbarazzo nell'essere consapevoli di essere sani e, quindi, fortunati rispetto al caro che non lo è. E' così che si costruisce intorno al malato un muro invalicabile, una barriera inespugnabile che diventa sempre più difficile da abbattere. Tuttavia tutto ciò si può in qualche modo prevenire se si inizia a dare maggiore peso all'impatto psicologico e sociale della malattia sul paziente e sulla famiglia. Nei medici e nei loro collaboratori deve farsi sempre più forte "la consapevolezza che la malattia è una condizione esistenziale più complessa di ciò che il sapere tecnico-scientifico riesce ad evidenziare nel corpo del malato" (cit. "L'oncologia incontra l'esperienza umana" network "La forza del vivere") e, quindi, deve aumentare l'attenzione ai bisogni e alle necessità del malato senza mettere su piani contrapposti l'abilità tecnica e la capacità comunicativa.

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Dopo questo film è aumentato in me il timore di poter diventare un medico che è interamente assorbito dal lavoro e che trascura i suoi interessi e la famiglia. MacKee è un medico molto valente, spregiudicato, incapace di comunicare con gli altri (siano essi collaboratori, parenti, amici). E' interessato al prestigio e al successo della sua professione, è pieno di sé e contrario a qualsiasi coinvolgimento emotivo.

L'idea di medico che mi sono fatta è quella di "un'anti-Jack" (o almeno il Jack della prima parte del film). Un medico deve dare il massimo di sé quando deve salvare la vita ad un paziente, creando, però, una certa empatia con lui. Questo può portare ad un certo coinvolgimento emotivo, ma credo che questo sia sano: basta porvi un limite, un freno affinché non diventi eccessivo. Creare empatia con un paziente significa cercare di capirne lo stato d'animo e la psicologia (oltre che i sintomi somatici) e considerare importante il sistema di valore in cui il  malato crede. Tutto questo perché un buon medico per essere tale deve essere stato malato e, quando non lo è stato, deve almeno cercare di capire cosa significhi esserlo.

Infine il medico deve anche capire che la sua vita continua anche fuori dalla sala operatoria e dall'ambulatorio. Il medico dovrebbe avere dei sani interessi su cui concentrarsi oltre al lavoro. Dovrebbe saper staccare e dedicarsi agli affetti e ad altri stimoli con la consapevolezza di essere anche lui una persona e non solo un automa che vive per il lavoro e niente altro

 

 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

Per avere un'idea più esatta di quello che è il sistema sanitario americano consiglio il film-documentario "Sicko" di Michael Moore.

 

 


16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Dopo aver visto questo film, ho riflettuto sulla condizione dei pazienti affetti da problemi psichiatrici e in particolare sulle strutture che li accolgono. 

In Italia (ma forse non solo), fino a non molto tempo fa, le strutture sanitarie per pazienti di questo tipo non sono mai state all'altezza.

Prima degli anni '80 e, per la precisione prima della Legge Basaglia del 1978, esistevano i manicomi, cioè luoghi di contenimento fisico, dove venivano perpetrate cure non degne certo di questo nome e che, anzi, meriterebbero il nome ben più appropriato di torture.

In realtà la chiusura effettiva e completa dei manicomi è avvenuta solo dopo il 1994, mentre le singole regioni provvedevano alla costruzione di ospedali psichiatrici che, però, a lungo hanno mostrato carenze strutturali ed organizzative (ben evidenti anche nel film).

Oggi le situazioni più critiche si registrano negli OPG, ospedali psichiatrici giudiziari, dove spesso si entra per reati non gravi e si rischia di non uscirne più, dove pochi sono i medici e ancora meno gli psichiatri.

Dopo aver visto questo film, ho deciso di informarmi maggiormente sulle condizioni degli ospedali/reparti psichiatrici in Italia.

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

La figura di medico che emerge da questo film mi ha colpito molto. Sicuramente è una figura molto romantica e mi domando quanto rispecchi la realtà dei fatti, soprattutto in contesti così difficili. In un certo senso mi ha mosso a compassione questo dottore che si impegna anima e corpo per aiutare i suoi piccoli pazienti, lottando da una parte contro la loro ostilità, la loro diffidenza di questi, dall'altra le carenze strutturali e organizzative del reparto in cui lavora.

Arturo mi ha dato l'impressione di essere una persona fragile (soffre ancora molto per la separazione dalla moglie), ma che cerca di superare il suo dolore lavorando praticamente incessantemente e caparbiamente per i suoi ragazzi e, in particolare, per Pippi, verso cui  mostra pazienza, forza e amorevolezza per comprendere la causa (per altro di natura psicologica, non psichiatrica) dell'epilessia che la affligge.

La figura del dottore che emerge da questo film è quella di un medico pronto all'ascolto del paziente, non sordo alle sue esigenze e pronto persino a compensare le carenze affettive. 

E' un medico che con la sua costanza, con la sua pazienza e con la sua determinazione riesce a superare la diffidenza e la ritrosia dei pazienti (in questi casi, forse, persino più spiccate che in altri) e che si mette in gioco pur di comprendere il problema alla base del male che affligge il malato.

 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

In merito alle situazioni negli  OPG consiglio il blog di Ignazio Marino, chirurgo e senatore del Partito Democratico, in cui si trovano articoli come questo 

http://www.ignaziomarino.it/news.asp?id=795

 

 


30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Sinceramente ho trovato questo film, al pari di "Un medico un uomo", abbastanza angosciante. Ancora una volta è ricomparsa la contrapposizione tra medico e paziente, tra cattivo e buono, tra superbo e umile, tra potente e impotente. Anche in questo film il protagonista è solo di fronte alla sua malattia: l'unico suo conforto, l'unica sua forza è la poesia. Riemergono temi già affrontati nei commenti degli altri film: l'inadeguatezza dell'approccio medico al dolore psicologico e fisico della paziente (infatti il giovane medico non si rende affatto conto della sofferenza e della grande paura di Vivien), la mancanza di sicurezza da parte dei clinici troppo bruschi e sbrigativi, le scarse disponibilità e chiarezza dei dottori, l'indifferenza dei medici mascherata con assenza di patetismo. Fra tutti questi temi, un argomento, a mio parere, interessante è quello affrontato nella seconda parte dell'opera: la grande dignità nel morire, richiesta alla fine da parte della paziente e dell'infermiera, cioè quando Vivien decide di non farsi rianimare nel caso in cui le sue condizioni peggiorino drammaticamente. E' un tema che in Italia è ancora al centro di accesi dibattiti e su cui non si sono fatti grandi passi avanti. Sapere che in paesi come gli Stati Uniti di America c'è questo diritto di scelta rincuora e invoglia a credere che qualche speranza ci sia anche per noi. A mio parere, infatti, bisognerebbe dare a tutti la libertà di scegliere tra la vita e la morte, dopo essere stati messi a conoscenza delle proprie condizioni di salute chiaramente. Sarebbe davvero un grande segno di civiltà.

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Dopo la visione di questo film, ho potuto riflettere particolarmente sulla figura dello specializzando. L'augurio che mi faccio è quello di non finire mai davanti ad un paziente a gareggiare coi miei colleghi e a dibattere accesamente con essi sulle cause di una malattia o sulle eventuali prognosi solo per dimostrare le mie conoscenze al docente di turno.

Ho visto specializzandi che vogliono prevalere sui propri colleghi, che vogliono fare sfoggio del proprio sapere, che pensano di essere sempre dalla parte del giusto e che credono di fare solo del bene, limitando anche la libertà del paziente e, soprattutto, non interessandosi realmente delle sue condizioni mentali e fisiche.

 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

"L'uomo dal fiore in bocca " di Pirandello.

 

22 Marzo 2011: MEDICI PER LA VITA di Joseph Sargent, USA 2004, 110'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?


Questo film mi ha colpito rispetto ai precedenti perché è emerso un nuovo aspetto dell'ambiente medico, ovvero il mondo della ricerca. I temi affrontati sono, secondo me, molto attuali: si tratta di un ambiente in cui ancora oggi è difficile emergere, in cui si manda spesso avanti gente che ha già una certa notorietà e fama, in cui mal si accettano le novità.

Anche dal film si evince che il mondo della ricerca è molto autoreferenziale e ostile ai cambiamenti. Vivien, infatti, deve superare molte difficoltà, sebbene dimostri grandissime capacità e tanto talento: intanto è l'unico assistente di colore nel laboratorio del dottor Blalock nell'America degli anni 40 del '900, non è laureato in medicina e nella sua vita ha lavorato come falegname prima e come factotum dopo (i primi tempi col dottor Blalock). Vivien viene praticamente sfruttato a tempo pieno dal suo capo senza ottenere alcun riconoscimento: anzi si vede persino soffiato il merito della buona riuscita dell'operazione a cuore aperta eseguita sì dal dr. Blaclock, ma grazie alle tecniche e agli strumenti ideati da lui ideati. Tuttavia, nonostante tante delusioni, Vivien continuerà a lavorare nel laboratorio dell'ospedale Hopkins solo grazie al suo grande amore e alla sua grande devozione per la medicina.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?


Dopo la visione del film "Medici per la vita", ho capito che il medico come il ricercatore deve essere spesso caparbio e forte abbastanza da far valere le proprie idee. Bisogna farsi forza senza mai scoraggiarsi e non arrendersi di fronte alle difficoltà. Se si cade una volta, bisogna poi rialzarsi più forti di prima. Quando si crede davvero in quello che si fa, bisogna impegnarsi con tutte le proprie energie per realizzarlo, come Vivien che trova la forza di andare avanti nonostante le difficoltà e le delusioni grazie al suo profondo amore per la scienza. Questo vale per ogni campo: dallo sport al lavoro alle attività più rilassanti, che si faccia politica o che si insegni, che si studi o che si faccia il medico...

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

Un personaggio che per certi aspetti mi ricorda molto la figura di Vivien, quindi una persona geniale, molto intelligente, aperta alle novità, contro corrente, avversata dai proprio colleghi è Rosalind Elsie Franklin (Londra 1920-Londra 1958).

 

 

5 Aprile 2011: L'OLIO DI LORENZO di George Miller, USA 1993, 129'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Sono rimasta molto colpita dalla triste storia di questa famiglia italo-americana, sicuramente comune, purtroppo, a molte altre che come gli Odone sono costretti a convivere con la malattia di un loro caro, per la quale ancora non è stata trovata cura. Mi ha impressionato vedere a cosa può portare l'amore per il proprio figlio: Augusto è un uomo totalmente estraneo al mondo medico, ma trova la determinazione per studiare la malattia del figlio al fine di trovarvi una soluzione, mentre Michaela riesce a restare in maniera amorevole, solo come una madre può fare, vicina al figlio bisognoso di cure e contemporaneamente ad aiutare il marito nella ricerca di una cura per Lorenzo. E' stato triste, molto triste vedere quanto i due genitori abbiano dovuto lottare per essere ricevuti ed ascoltati dai medici e dai ricercatori e per ottenere la collaborazione di altri genitori che condividevano le loro stesse condizioni (è il caso dell'incontro-scontro con il presidente dell'associazione in favore dell'ALD, la adrenoleucodistrofia). La caparbia dei due genitori alla fine viene premiata perché alla fine riescono a trovare la combinazione di oli (oleico ed erucico) che donerà al figlio diversi anni di vita in più. Non solo: gli Odone sono riusciti ad ottenere: l'attenzione mediatica dovuta, anche e soprattutto grazie a questo film che vanta attori del calibro di Susan Sarandon (attrice per altro molto impegnata nel sociale), e la fondazione di un'associazione internazionale senza fini di lucro che ha lo scopo di finanziare la ricerca per la ricostruzione della guaina melinica, la cui perdita è alla base dell'ALD.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Sinceramente sono rimasta perplessa dall'atteggiamento dei medici e dei ricercatori che i genitori di Lorenzo incontrano durante il loro calvario. Da una parte ci sono medici che neanche si sono interessati all'ALD perché come altre malattie coinvolge una percentuale relativamente bassa di persone, dall'altra ci sono medici che invece hanno iniziato la ricerca, ma senza mai condividere le loro scoperte. Entrambi gli atteggiamenti sono da ricondurre al fatto che certe ricerche non pagano. Nel vero senso della parola. Quando una patologia riguarda poche persone, spesso non si ha lo "stimolo" a ricercarvi una soluzione perché le cause farmaceutiche e il mondo della ricerca non traggono (o pensano di non trarre) un guadagno maggiore dell'investimento che compiono. Allora si abbandona la ricerca, qualora sia stata intrapresa, o se ne osteggia l'inizio. Sicuramente la ricerca di cure alle malattie più diffuse e comuni non va tralasciata, ma non è neanche giusto che si ignorino patologie rare solo perché riguardano pochi sfortunati. Quello che forse più mi ha infastidito dell'atteggiamento dei ,medici che gli Odone incontrano è stato la loro pressoché totale mancanza di entusiasmo davanti alle idee e alle proposte dei due genitori. Se da una lato si può capire la prudenza dei dottori, perché in fondo la ricerca scientifica non può spettare che a degli "addetti ai lavori", dall'altro forse mi sarei aspettata un atteggiamento un po' più incoraggiante e una minor chiusura da parte dei medici di fronte a dei genitori così desiderosi di migliorare la vita del figlio.

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

Allego il sito della fondazione creata dagli Odone http://www.myelin.org/

Inoltre qualche settimana fa ho avuto modo di leggere un articolo sul numero 1208 di "Il Venerdì" (settimanale de "La Repubblica"): si trattava di un'intervista ad Augusto, ritornato nella sua città natale dopo la morte del figlio avvenuta nel 2008. In quell'articolo Odone parla della triste esperienza della sua famiglia e sottolinea quanto anche Michaela fosse determinata nella ricerca di una cura per il figlio al fine di manternerlo in vita il più a lungo possibile. Questo mi sembrava giusto sottolinearlo perché dal film sembra quasi che la madre sia meno coinvolta nella battaglia contro l'ALD rispetto al marito

 

 

19 Aprile 2011: PATCH ADAMS di Universal, USA 1998, 115'


Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Finalmente posso dire di essere veramente soddisfatta dalla scelta sul film che è stata fatta. Praticamente quasi tutti i film che ci sono stati proposti hanno trasmesso un'idea negativa della professione medica: alla domanda "la visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?" ho sempre dovuto pensare e/o scrivere qualcosa tipo "diversamente dal protagonista/al contrario del protagonista ecc..., un buon medico dovrebbe...". Finalmente, invece, la figura di Patch Adams è una persona da prendere come riferimento, come modello di medico umano e sinceramente votato alla sua professione. Mi ha rincuorato (ri)vedere la storia di questo uomo perché mi ha ulteriormente ricordato che non tutti i medici sono spregiudicati, egoisti, superbi e incapace di creare alcuna empatia col paziente. Certo, so benissimo che alcuni medici purtroppo possiedono tali qualità negative, ma sono altrettanto sicura che ce ne siano molti altri che invece non le presentano affatto. Far vedere dei film in cui la figura del medico viene criticata è giusto perché serve a far aprire gli occhi, ma a volte è anche bene ricordare che non tutti i medici sono arroganti e insensibili. Altrimenti l'effetto che si ottiene è quello di demoralizzare, invece di spronare a diventare dottori, persone migliori.




La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Penso che chi decide di seguire la professione medica dovrebbe ispirarsi anche alla figura di Patch Adams e in particolare al suo altruismo, alla sua volontà di far del bene, alla sua umanità e alla sua generosità. Certo, dopo la visione del film sorge spontanea anche un'altra riflessione: cioè che in questa professione ci vuol anche molto buon senso. Purtroppo a volte bisogna capire quando è il caso di fermarsi, quando il desiderio di aiutare gli altri mette in condizioni di difficoltà se non di pericolo.

 


Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

Allego il sito dell'istituto fondato da Patch Adams nel 1971 http://www.patchadams.org/ e il sito di "La Repubblica" relativo ad un articolo sul medico statunitense http://www.repubblica.it/persone/2010/05/04/news/patch-adams-3804546/

 


Comments (0)

You don't have permission to comment on this page.