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Chioccioli Marco

Page history last edited by Marco Chioccioli 12 years, 12 months ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

La visione dell’episodio “Medici” tratto dal film di Nanni Moretti: “Caro Diario”, mi ha fatto molto riflettere su alcuni lati della professione medica che non avevo ancora mai preso in considerazione. In particolare ho trovato molto irritante la sufficienza mostrata dai medici nei confronti di un paziente che, ai loro occhi di esperti, appare tutto tranne che malato. Nessuno di loro, in realtà,  lo ascolta e di conseguenza nessuno è in grado di capire di che natura sia il suo disturbo, nonostante che le sue condizioni si aggravino nel corso del tempo e i sintomi della sua malattia si manifestino chiaramente. Il regista del film, secondo me, coglie molto bene questo aspetto, forse anche perché fa parte del suo vissuto personale, e ci mostra una classe di medici arroganti che, non solo non  sono in grado di interloquire tra di loro (infatti nessuno di essi si prende preoccupa di analizzare l’operato dei colleghi precedenti), ma giungono a formulare diagnosi del tutto errate arrivando al punto di ritenere che il paziente non abbia alcun problema, piuttosto che contraddirsi e ammettere di aver commesso uno sbaglio. Una frase estremamente significativa del film, che riassume molto bene quest’ultimo punto, è quando il “Principe dei dermatologi”, a cui si rivolge il protagonista, definisce quest’ultimo un “perdente”, non credendo affatto che lui sia effettivamente malato, ma solo uno sciocco che crede di avere un prurito facilmente guaribile con la sola forza di volontà. Infatti, alla fine del consulto, non gli prescrive altro che uno shampoo per capelli e un periodo di riposo in una località balneare, durante il quale è costretto a vestirsi in modo ridicolo: con i calzini di cotone fin sotto il ginocchio e la camicia a maniche lunghe anche quando passeggia sul bagnasciuga.

Spesso sarà capitato a molti di andare a un consulto specialistico per un qualsiasi problema, forse anche preoccupati e suggestionati dal possibile esito, ed essersi trovati di fronte medici che, dopo consulti più o meno superficiali, hanno messo in ridicolo le nostre piccole preoccupazioni che, però, agli occhi di un paziente tendono ad ingigantirsi. Reputo che questo sia un problema enorme per riuscire ad abbattere la reciproca diffidenza che, inconsciamente, esiste tra medico e paziente e ritengo che i medici dovrebbero mostrarsi più rispettosi nei confronti di tutti coloro che si affidano a loro, senza mai perdere l’obiettività clinica e senza mai credere che il solo fatto di indossare un camice bianco li mette in una posizione di assoluta superiorità nei confronti di chi sta loro di fronte.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Nel film c’è anche un aspetto positivo che si riesce a cogliere nitidamente ovvero il tentativo da parte del paziente di “ribellarsi” a dei medici che non gli fanno altro che prescrivere farmaci inutili, dopo visite estremamente superficiali ma veramente costose, e che non gli permettono di spiegarsi facendolo diventare così un elemento passivo, quasi un “oggetto” clinico. Ad un certo punto nel film si osserva che Nanni Moretti addirittura abbandona il medico nel suo studio, mentre questi gli sta scrivendo una spropositata serie di farmaci da comprare. Il protagonista comincia, inoltre, a documentarsi per conto suo: decide di iniziare a leggere i foglietti illustrativi contenuti all’interno delle confezioni dei farmaci che gli sono stati prescritti, scoprendo così che molti di essi sono perfettamente inutili. Da un suo amico viene a sapere che il vaccino che gli hanno suggerito di farsi contro le sue “fantomatiche” allergie potrebbe causargli uno shock anafilattico, inoltre, come estremo rifiuto, preferisce affidarsi alla medicina orientale piuttosto che ai vari "luminari". Tra l‘altro sarà proprio il medico cinese che auscultandolo e sentendogli una forte tosse gli consiglierà di farsi una lastra al torace, da cui poi si risalirà alla diagnosi del morbo di Hopkins. Ritengo questo un aspetto molto interessante da sottolineare: solitamente uno va dal medico perché è convinto che lui ti possa aiutare dall'alto delle sue conoscenze, nel film invece si mostra l'ipotesi (esasperando la realtà) in cui i medici non sanno aiutarti, anche se di per sé la diagnosi sarebbe banale per qualsiasi neo-laureato in Medicina. Il paziente, però, non si demoralizza, ma convinto, a differenza dei medici, del suo stato di malattia tende a reagire ed alla fine riesce concretamente a farsi diagnosticare la malattia e a farsi curare.  

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

Utilizzo questa sezione per consigliare la lettura del libro "Un altro giro di giostra", uno degli ultimi romanzi scritti dal grande Tiziano Terzani, nel quale racconta l'esperienza della sua malattia e del suo peregrinare alla ricerca di qualcosa o qualcuno che lo possa aiutare a guarire. 

 

"Dopo un po’ il viaggio non era più in cerca di cura per il mio cancro, ma per quella malattia che è di tutti: la mortalità.

 

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Ho trovato molto forte una riflessione che è scaturita durante il dibattito seguito alla proiezione del film: ovvero riuscire a descrivere cosa fa un paziente dopo che gli è stato comunicato l’esito di un esame, che ha confermato una prognosi dall’esito infausto. E’ stato detto, ed è confermato dal film, che solitamente il paziente non fa niente, assume un atteggiamento afasico; è fermo, immobile e non parla poiché l’idea di essere malato è così totalizzante da annullare quella che è la quotidiana concezione del tempo; si diventa incapaci di proiettarsi in un futuro anche prossimo. Ogni minuto diventa così inestimabile e si arricchisce di significati profondi, tanto che diventa impossibile andare alla ricerca di qualcos’altro che non sia un attimo ben speso. Inoltre mi ha molto colpito come ci siano delle precise fasi che possono essere scandite, quasi con precisione matematica nel poter  prevedere quali saranno gli atteggiamenti del paziente nel decorso della malattia: dopo un’iniziale fase di rifiuto segue la rabbia ed infine un atteggiamento consapevole in cui è importante avere una relazione di complicità ed empatia con il medico curante.

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

La visione del film “Un medico un uomo” offre moltissimi spunti di riflessione. Su uno in particolare ritengo doveroso dovermi soffermare: il radicale cambiamento di prospettiva di un chirurgo che da medico diventa improvvisamente paziente. Il protagonista del film all’inizio è ritratto come il prototipo del chirurgo di fama, sicuro di sé, spavaldo al punto tale da apparire quasi irriverente e assolutamente distaccato dai suoi pazienti, che per lui non sono altro che un “campo” operatorio da dover incidere con il bisturi. All’opposto, al termine della storia, il medico appare come un uomo nuovo che riesce a trovare con i suoi pazienti una complicità e una profonda empatia. Questo cambio radicale di atteggiamento avviene in  seguito della scoperta di avere un polipo alle corde vocali. Dopo un iniziale e naturale rifiuto, inizia un percorso che lo porta a confrontarsi con altri medici, non vedendoli più come spettabili colleghi, ma come estranei che lo fanno sentire, per la prima volta nella sua vita, come lui era solito far sentire gli altri. Sembra quasi un contrappasso quello che gli accade: è costretto a vedere, ad ogni consulto medico a cui si sottopone, sulla faccia degli altri medici i suoi stessi atteggiamenti e i suoi stessi modi. Il percorso che si racconta nel film può essere interpretato come un percorso catartico attraverso il quale il medico, grazie alla sua condizione di malattia e dunque di malato, si avvicina ai pazienti in modo del tutto nuovo. Non a caso il film termina con il protagonista, ormai guarito, che costringe i suoi assistenti a diventare effettivamente dei malati per 72 ore e a sottoporsi a tutte le terapie che quotidianamente prescrivono ai loro pazienti.

Sarebbe auspicabile poter trovare sempre non solo medici esperti e preparati, ma anche uomini e donne attenti/e alle reali esigenze del paziente che, se in un primo tempo sono quelle di essere curato, dopo diventano quelle di essere soprattutto compreso nella propria condizione di malato e sostenuto nella cura della malattia.

 

 

 

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“Ognuno esamini i propri pensieri e li troverà occupati nel passato e nell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente; e, se ci pensiamo, è soltanto per prenderne lume a disporre dell’avvenire. Il presente non è mai il nostro scopo; il passato e il presente sono i nostri mezzi; soltanto l’avvenire è il nostro scopo. Per questo, non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo diverremo giammai.”

 

Blaise Pascal, Pensieri, pensiero 172.                  


16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

La  visione del film “Il grande cocomero” suscita una miriade di sensazioni diverse e contrastanti. La regista cerca di penetrare nel mondo infantile comportandosi come un ospite e descrivendo il tentativo di curare bambini affetti da disagi di natura psicologica. Il quadro che ne viene fuori è purtroppo drammatico e a tratti velato da un pessimismo misto a compassione. Di fatto nessuno ha il coraggio di affiancare dei bambini ritenuti “casi disperati”, che non sarebbero tali se solo il “mondo esterno” non li etichettasse così! Molte volte non si vuol perdere tempo, ma si guarda avanti facendo finta che certe realtà non esistano, fino al momento in cui esse vengono a bussare alla nostra porta… Altre volte, al contrario, ci si immerge a tal punto nel loro mondo fino a esserne risucchiati . Nel finale è importante, comunque, sottolineare il grande messaggio di speranza che F. Archibugi ci vuole lasciare nel mostrare che la dodicenne Pippi, figlia di borgatari arricchiti e affetta da ricorrenti crisi epilettiche, riesce a guarire e a condurre una vita normale e felice grazie all’aiuto di un medico “sui generis”, Arturo, che vede in lei la motivazione per “alzarsi dal letto tutte le mattine”.    

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Nel film il ruolo del medico è incarnato da Arturo, neuropsichiatra infantile, che tenta, contro le apparenze e le norme, una terapia analitica con i suoi giovani pazienti. L’osservare i comportamenti che il personaggio assume mi ha confermato quello che già pensavo, cioè l’obbligo da parte di un medico di discernere quella che è la sua vita professionale da quella che è la sua vita di tutti i giorni, a maggior ragione nel caso in cui si trovi a lavorare, o per scelta propria o per una qualsiasi circostanza, con persone affette da psicopatie. Arturo è forse la persona realmente più malata all’interno del film: non ha una ragione di vita se non quella di assistere i suoi pazienti che, di fatto, rappresentano e sono tutto il suo mondo, tutto quello che ha. Non credo sia esagerato affermare che Arturo incarna la figura di un martire non compreso, come fu, a suo modo e a suo tempo, Marco Lombardo Radice neuropsichiatra alle cui esperienze si ispira il film e morto suicida. Il medico deve prima di tutto preservare se stesso per poter aiutare gli altri, agendo nel modo più obiettivo possibile.

La naturale conclusione del film sarebbe stata probabilmente un'altra, ma è bello alla fine vedere come le storie di vite disperate che si intrecciano nel film si  concludano in modo sereno e felice.  

 

 

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“Vi sono due categorie: quelli che si uccidono o per una gran tristezza, o per ira interna, o perché pazzi, o che so io… Quelli si uccidono di colpo. Invece quelli che lo fanno a mente lucida ci pensano molto.” 

 

Queste sono le riflessioni che Dostoevskij fa dire a Kirillov, personaggio del romanzo “I Demoni”. Il suicidio che questo personaggio mette in atto rappresenta la libertà che lui vuole affermare, indifferente a qualsiasi prospettiva al di là della vita (trascendente), manifesto del più radicale ateismo. In realtà, manifestazione di un palese nihilismo, di grande sofferenza e solitudine, come abbiamo visto in questi giorni per il famoso regista Mario Monicelli.

 


30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Il film “La forza della mente” tratta di un tema estremamente drammatico: le condizioni nelle quali sono costrette a vivere le persone a cui è stato diagnosticato un cancro terminale. Le descrizioni del film sono brutali e senza filtri; la protagonista, infatti, si rivolge direttamente a noi che la vediamo lentamente e dolorosamente morire.  

Sinceramente il film non mi è piaciuto in quanto l’ho trovato eccessivo e, a tratti, grottesco nell’indugiare sul comportamento, quasi caricaturale, dei medici nei confronti del paziente. Il tema affrontato è sicuramente delicato e difficile da proporre ad un pubblico per la crudezza della descrizione del ciclo di chemioterapia che, purtroppo, riflette la dura realtà dei malati oncologici terminali, e anche per la spietatezza ed il totale cinismo da parte dei medici fin dalle primissime parole del medico che ha in  cura la protagonista: “Lei ha un cancro !”.

 

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Penso sinceramente che la realtà ospedaliera descritta nel film non rispecchi quello che è il reale atteggiamento dei medici nei confronti di un malato terminale, o meglio, mi auguro che non lo sia. Le persone che affiancano la protagonista, Vivian, in questo delicatissimo percorso sono Jason, l’assistente del dottor Kelekian, e l’infermiera. Il primo appare totalmente inadeguato al ruolo di clinico e i suoi modi sono tragicamente goffi e assolutamente indelicati, il secondo si nota di più per la sua assenza che per la sua presenza.

È tragico anche notare che i medici usano la paziente come una cavia da esperimento, sono decisi a darle la “dose piena” della cura, anche quando le sue condizioni sono tragicamente compromesse, per poterne studiare gli effetti. La protagonista, illustre accademica, non più insegnante, bensì oggetto di studio per altri, durante gli otto mesi successivi accetta trattamenti brutali e dolorosi per cercare di sconfiggere la malattia. Non le viene risparmiato nulla e, quando si aggrava, decidono di somministrarle morfina, pur sapendo che le toglierà totalmente la lucidità, piuttosto che accogliere il suggerimento dell’infermiera di applicarle un auto-dosatore. Quest’ultima è l’unica figura che si salva all’interno del film, l’unica persona che è realmente vicina alla protagonista nei momenti più dolorosi del suo percorso e che cerca, per quanto le è possibile, di aiutarla. A conferma di quest’ultima affermazione, una delle scene finali la vede condividere un ghiacciolo con la protagonista. È lei che alla fine eviterà che anche la sua ultima volontà, di non essere rianimata in caso di arresto cardiaco, sia violata dello sciocco tirocinante che, senza leggere la sua cartella, chiama erroneamente un “codice blu”.

 

 

 

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Utilizzo questo spazio per riportare la traduzione del sonetto appartenete alla raccolta “Holy Sonnets” di John Donne pubblicata nel 1633, con cui il film si chiude.

 

 

Morte, non esser fiera sebbene alcuni ti abbiano

chiamata potente e terribile perché tu non lo sei;

poiché coloro che tu pensi di sconfiggere,

non muoiono, povera morte, né tu mi puoi uccidere.

 

Dal riposo e dal sonno, che non sono altro che tue immagini,

  (viene tratto) molto piacere, quindi da te un piacere molto maggiore si deve trarre, 

e più in fretta i nostri miglior uomini se ne vanno con te,

  riposo per le loro ossa e liberazione dell'anima.

 

Tu sei schiava del destino, del caso, dei re, e degli uomini disperati,

  e convivi con il veleno, la guerra e la malattia,

  e il papavero o gli incantesimi ci fanno dormire altrettanto

  

e meglio del tuo colpo; allora perché ti gonfi?

  Dopo un breve sonno, ci svegliamo per l'eternità,

  e la morte non esisterà più; Morte, tu morirai.

 

 

 

22 Marzo 2011: MEDICI PER LA VITA di Joseph Sargent, USA 2004, 110’ 

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Penso che questo film “Medici per la vita” sia stato il migliore fin qui proiettato. La storia a cui si riferisce è una vicenda realmente accaduta: l’insolita e fortunosa nascita di un sodalizio tra un importante medico, il Dr. Blalock, e il suo assistente di laboratorio, Vivien Thomas,un giovane falegname di colore con la passione per la medicina. Non è da trascurare  il contesto storico nel quale la trama si svolge, ovvero la Baltimora degli anni quaranta profondamente razzista e intollerante. Il Dr. Blalock prende sotto la sua ala Vivien e gli insegna tutto quello che è il suo lavoro e insieme  formano un team eccellente e inventano un nuovo campo della chirurgia mettendo a punto un’innovativa tecnica di cardiochirurgia che ha concesso di operare i “bambini blu” ovvero i bambini cianotici, e di lì a pochi anni di salvare migliaia di vite umane. Mi ha colpito il fatto che la Medicina sia descritta come una scienza ancora tutta da esplorare e che procede per tentativi grazie a uomini coraggiosi che non si arrestano davanti al dogmatismo di altri colleghi ( “sul cuore non si può intervenire chirurgicamente” ), ma si mettono in gioco insieme al paziente per cercare di salvargli la vita. 

 

La visione del La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Il film secondo me è particolarmente adatto da far vedere ad un pubblico di futuri medici, in quanto si vedono finalmente dei medici appassionati al loro lavoro e gettati a capofitto nelle problematiche dei pazienti e non distratti dalla ricerca della vana gloria. Inoltre si percepisce molto forte, e questo è uno degli aspetti più belli del film, l’amore che Vivien mostra per la medicina e di riflesso per il suo lavoro. Il suo è un amore cieco e viscerale che non si ferma dinnanzi a niente, né a difficoltà di natura razziale né di natura culturale, né alle pressioni sociali che quasi rischiano di incrinare la sua amicizia e collaborazione con il Dr. Blalock. Vivien è innamorato del suo lavoro, sta in laboratorio 16 ore  al giorno e prende uno stipendio pari all’uomo delle pulizie, lotta per affermarsi ed alla fine ci riesce. Con sua profonda gioia e merito, alla fine del film, gli viene consegnata la laurea “ad honorem” in Medicina e Chirurgia e il suo ritratto viene affisso accanto a quello dei più grandi medici che hanno dato preziosi contributi ad ampliare le conoscenze mediche e proprio davanti alla statua di Ippocrate in quella sala che, all’inizio del film, lui non poteva nemmeno valicare perché nero.       

 

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Consiglio per chi è interessato di visitare il sito: www.childrensheartinstitute.org dove ci sono interessanti immagini e dettagliate spiegazioni riguardo alla tecnica chirurgica che nel film è mostrata: Blalock-Thomas-Taussing Shunt. Questa attualmente è una tecnica poco utilizzata nella sua forma originaria in quanto da sola è un palliativo per curare difetti cardiaci che danno luogo a fenomeni di cianosi e che sono le cause più comuni di sindrome del “bambino blu”. La procedura nella sua forma originale consisteva nel collegare chirurgicamente l’arteria succlavia e il corrispondente ramo laterale dell’arteria polmonare, permettendo così di deviare il flusso di sangue verso i polmoni e alleviare la cianosi. La sua prima area di applicazione è stata la tetralogia di Fallot.

 

 

5 Aprile 2011: L'OLIO DI LORENZO di George Miller, USA 1993, 129'


Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

L’ ”Olio di Lorenzo”, è un grande classico della cinematografia, direi quasi un “cult”. Sebbene sia stato proposto in televisione più di una volta, questa è stata per me, la prima visione. L’ho trovato un bel film, ben strutturato e sostanzialmente fedele alla storia vera da cui è tratto. La trama del film si basa, infatti, sull’esperienza dei coniugi Odone al cui figlio viene diagnosticata una rara malattia genetica degenerativa che porta alla morte nel giro di pochi anni. Il film, a mio giudizio, nel complesso, deve essere considerato positivamente in quanto termina con le testimonianze vere di bambini, che grazie alla cura scoperta dai genitori di Lorenzo, possono condurre una vita normale. È lodevole e comprensivo l’atteggiamento dei protagonisti che si gettano anima e corpo nello studio della malattia che lentamente sta uccidendo il loro unico figlio, al fine di poterla alleviare grazie alla scoperta di una cura. Dopo un primo periodo nel quale si affidano a specialisti, che provano approcci terapeutici sperimentali e purtroppo inefficaci, decidono di documentarsi loro stessi, in conseguenza anche del progressivo peggioramento delle condizioni del figlio le cui sofferenze, dovute al decorso della malattia, sono descritte drammaticamente durante tutto il film. Grazie alla loro caparbietà riescono ad ideare una cura basata sulla miscela di due oli: l’amore sviscerato della madre e la tenace razionalità del padre ottengono il miracolo. Questo eccellente risultato non solo ha portato alla scoperta di una cura per i bambini affetti da questa terribile malattia, ma ha anche dato una spinta notevole nel campo della ricerca che riguarda le malattie rare e, cosa degna di nota, è valsa al padre di Lorenzo una laurea “ad honorem” in Medicina.

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Il medico, purtroppo, nel corso della sua carriera si trova spesso ad affrontare situazioni estremamente delicate e complesse: nel film si mostrano sostanzialmente dei medici competenti e comprensivi, ma incatenati da una serie di logiche che agli occhi di due genitori con un figlio gravemente malato appaiono incomprensibili. I medici sono uomini di scienza e come tali devono mantenersi oggettivi e soprattutto basarsi sui fatti sperimentali, per poter essere utili alla collettività. È fuor di dubbio che il lavoro dei coniugi Odone sia stato eccellente, ma è bene tenere presente che è frutto della loro condizione, o meglio delle condizioni in cui versa il loro bambino e, cosa da tenere ben presente, è un’eccezione: spesso chi si trova di fronte ad un malato terminale viene schiacciato dal suo dolore e, come si mostra nel film, arriva addirittura a chiedersi se “quella è vita”. . . Chiunque veda un proprio caro in una condizione di dolore, farebbe qualsiasi cosa nel tentativo di alleviarne le pene senza più pensare agli altri che appaiono a questo punto come un ostacolo. Le loro motivazioni sono così forti che li portano con fervore a studiare testi medici per mettersi al pari dei medici e contrastarne le logiche. Dei due genitori solo il padre ha un approccio più distaccato, per quanto possibile, e basa le sue indagini sul raziocinio, come fa un vero ricercatore, mentre la madre, più impulsiva, non riesce mai a vedere il figlio come un malato, ma come “il suo bambino”. Da un lato comprendo le motivazioni dei genitori, ma è anche comprensibile che un medico non possa prescrivere terapie senza alcun riscontro clinico e soprattutto senza eseguire i dovuti trial clinici necessari alla messa a punto di un farmaco efficiente, ma anche sicuro per i pazienti. È  da notare, purtroppo molto tristemente, come anche il mondo della medicina non sia esente dalle logiche di mercato: come si nota nel film le malattie rare non hanno grosse sovvenzioni sia da parte di enti privati che pubblici, perché gli forzi economici anche se portassero frutti non sarebbero mai ripagati a causa del il numero dei pazienti estremamente esiguo.  


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Allego qui un articolo che ho tratto dal sito www.dica33.it/argomenti/malattie_rare/ald/ald1.asp una interessante pubblicazione di Elisa Lucchesini che dà alcune indicazioni sulla Adrenoleucodistrofia e che ha come fonte:


Centro di Informazione per le Malattie Rare Aldo e Cele Daccò
Villa Camozzi Ranica (BG)

ALD: un'eredità materna

L'Adrenoleucodistrofia (ALD) è una malattia metabolica rara, trasmissibile per via ereditaria recessiva. Il difetto genetico risiede sul cromosoma X e può essere trasmesso dalla madre ai figli. La madre e le figlie femmine, che ereditano la mutazione, non si ammalano, sono cioè portatrici sane. I figli maschi, invece, (che hanno un solo cromosoma X) ereditano il gene mutato e sviluppano la malattia. La ALD è caratterizzata da progressiva demielinizzazione cerebrale e atrofia delle ghiandole surrenali che portano, più o meno lentamente, verso uno stato vegetativo.

Le cause
Un difetto metabolico nelle reazioni di ossidazione degli acidi grassi a catena molto lunga (VLCFA) porta al loro accumulo nel sangue e nei tessuti. Queste molecole hanno un effetto tossico diretto sulla mielina, la guaina protettiva che riveste le strutture del sistema nervoso, e ne causa la progressiva distruzione. Tuttavia le lesioni della sostanza bianca (mielina), evidenziabili con la TAC e la Risonanza Magnetica, non sono sempre sufficienti a spiegare la gravità dei danni neurologici indotti dalla malattia.

La classificazione
Nonostante la sua rarità, l'adrenoleucodistrofia non ha una natura univoca: se ne distinguono, infatti, 2 forme principali, che riguardano la maggior parte dei casi, e altre molto più rare.
La forma infantile è la più comune, in quanto rappresenta circa il 60% dei casi. Esordisce tra i 4 e gli 8 anni d'età con numerosi sintomi neurologici, seguiti quasi sempre (85% dei casi) da insufficienza surrenalica. Le manifestazioni neurologiche comprendono iperattività, labilità emotiva, alterazione della vista e dell'udito, astenia, atassia, convulsioni. La progressione verso uno stato vegetativo avviene, generalmente, in 1-4 anni e il decesso in un arco di tempo variabile da 1 a 11 anni.
La forma dell'adulto, detta anche Adrenomieloneuropatia (AMN), rappresenta il 21% dei casi ed è più frequente tra i 21 e i 35 anni. Si manifesta con paraparesi lentamente progressiva, incontinenza o ritenzione urinaria, impotenza, neuropatia periferica che colpisce soprattutto gli arti inferiori. Nel 20-30% dei casi compaiono anche demenza o psicosi, mentre le alterazioni delle ghiandole surrenali sono presenti nel 70% dei soggetti.
La forma neonatale è molto rara, si manifesta già alla nascita e progredisce molto rapidamente. Si distingue dalle altre anche per la modalità di trasmissione che è ereditaria, ma autosomica (non legata ai cromosomi sessuali) recessiva: in parole semplici questa forma può colpire sia i maschi sia le femmine. 

Le cure
Fino a una ventina di anni fa le cure erano solo sintomatiche, volte cioè ad alleviare i sintomi neurologici e a compensare l'insufficienza surrenalica.
Oggi si cercano soluzioni in grado di rallentare la progressione della malattia, così da ridurne gli effetti invalidanti. Questi ipotetici trattamenti sono ancora in fase sperimentale e i risultati sono controversi, a volte incoraggianti altre volte negativi.
All'olio di Lorenzo, di cui si parla in un articolo a parte, si affiancano simvastatina e lovastatina. Si tratta di due statine, farmaci abitualmente utilizzati per ridurre il colesterolo, capaci di ridurre anche i livelli plasmatici di VLCFA. Se e come questo possa migliorare la prognosi della malattia, però, non è ancora stato dimostrato.
Altri tentativi ancora da valutare riguardano il trapianto di midollo osseo, che è stato effettuato su pazienti selezionati, con danni neurologici in fase iniziale, ma i cui risultati sono controversi. Occorrerà attendere alcuni anni per valutarne l'effettivo impatto sulla progressione della ALD.

Saperlo in tempo
È molto difficile, ma talvolta si può. Il primo segnale d'allarme deve venire dalla storia familiare: se ci sono stati casi di ALD è probabile che alcune donne della famiglia siano portatrici sane. Queste donne (eterozigoti) non manifestano quasi mai sintomi clinici evidenti; un 20-30% di esse sviluppa in età adulta lievi sintomi neurologici, non immediatamente collegabili alla malattia. Tuttavia, quasi tutte (85%) presentano elevati livelli di VLCFA nel plasma e nei globuli rossi, riscontrabili con un semplice esame del sangue.
Gli acidi grassi a catena molto lunga possono essere dosati anche nelle cellule del liquido amniotico e nei villi coriali; una diagnosi prenatale consente quindi di sapere se il feto ha ereditato la patologia.

 

 

19 Aprile 2011: PATCH ADAMS di Tom Shadyac, USA 1998, 115'


Che ti senti di dire dopo aver visto questo film? 


Questo ciclo di proiezioni si chiude in bellezza con il film che, a mio giudizio, è stata la scelta più indovinata e appropriata: Patch Adams. Il film parla di un uomo che, dopo aver tentato il suicidio, si ricovera in un ospedale psichiatrico dove trova “la strada da percorrere” grazie ai pazienti che sono ricoverati insieme a lui; decide, quindi, di dedicarsi agli altri per dimenticare i propri drammi e per questo si iscrive all’Università per studiare Medicina. Lì cerca, contro le dogmatiche e rigide regole del preside, di creare un nuovo approccio con i pazienti, quello del sorriso basato sulla ricerca della vera conoscenza, non quella che si ottiene studiando solo sui libri, ma quella che è come un dono, quello di rapportarsi con i pazienti da pari. Il protagonista, interpretato da Robin Williams, non cerca solo di curare i pazienti nel senso più stretto del termine, con l’utilizzo delle classiche terapie al fine di aumentargli i giorni da vivere, ma cerca di migliorare la qualità dei giorni che gli rimangono con l’allegria e l’umorismo. La scelta di questo film è stata particolarmente azzeccata perché, per la prima volta, i protagonisti sono degli studenti e futuri medici, proprio come siamo noi, e dunque vediamo ritratta una realtà che, seppur diversa, è vicina a quella nella quale siamo immersi. Come in tutti i film, soprattutto quelli americani, la trama, seppur basata su una storia vera, è molto romanzata; ma nel complesso il film scorre molto bene, anche perché i numerosi e complessi temi proposti sono smorzati dal velo di umorismo che pervade tutta la storia e che alleggerisce i toni.     


La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?


Ho trovato molto interessante un’opinione che è scaturita durante la discussione che ha seguito il film, ovvero il fatto che spesso si pensa al medico come a colui che vuole sconfiggere la morte o, meglio ancora, che possa sconfiggerla in qualche modo. In realtà le cose sono ben diverse: la morte è la sola cosa certa di questo mondo e il medico, come tutti gli essere viventi, è soggetto ad essa; l’unica cosa che può fare è cercare di rimandarla per un tempo comunque determinato… A questo punto, però, si potrebbe obiettare che noi pensiamo sempre alla cura come ad un beneficio atto ad alleviare le nostre sofferenze ed ad aumentare il numero dei giorni che ci restano da vivere. Il film, però,. pone in luce un aspetto che spesso trascuriamo: la qualità della vita dei pazienti, che molto spesso involontariamente il medico pone in secondo piano. A conferma di ciò, in una delle ultime scene si vede il compagno di stanza del protagonista che chiede aiuto a Patch in quanto, pur avendo trovato la diagnosi e applicato la terapia migliore per la paziente, non riesce comunque a farla mangiare e l’unico modo è quello di esaudire il suo desiderio: entrare in una piscina piena di spaghetti.  

Tutti noi, in una condizione di difficoltà, vorremmo avere al nostro fianco il medico più capace ,anzi guarderemmo con sospetto un professionista che ride e non fa mai il serio, tuttavia non è detto che il più preparato sulla carta, possa essere davvero colui che ti può aiutare realmente; a volte anche un sorriso è sufficiente a guarire ferite che magari sono nascoste e procurano mali profondi. 


Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

Durante il film Patch recita una poesia di Pablo Neruda (Sonetto XVII) a Carin: 

 

"Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t'amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l'ombra e l'anima. 

 

T'amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.  

 

T'amo senza sapere come, né quando, né da dove,
t'amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti  

 

che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno." 

 

 


 

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