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Capacci Mirco

Page history last edited by Mirco87 12 years, 7 months ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

La storia autobiografica di Moretti devo dire da molto da riflettere. Sebbene ritenga che il suo caso si possa annoverare come esempio di "caso sfortunato" ( il linfoma di  Hodgkin è  infatti una malattia di non facile diagnosi, ne il prurito ne è sintomo così specifico) è vero anche che un "pellegrinaggio medico" simile metterebbe a dura prova la fiducia sulla competenza e preparazione dei medici di chiunque. Al di là della questione sulla unicità o meno del caso di Moretti, il film mette in luce un problema che ritengo fondamentale nel rapporto medico paziente, ossia l'ascolto e la chiarezza.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Nel rapporto medico-paziente ritengo siano fondamentali l'ascolto e la chiarezza da parte del medico; queste parole effettivamente sono un po' abusate all'interno della questione ma adesso vorrei riflettere considerando i suddetti termini nel loro significato intrinseco e non come confuso sinonimo di "sostegno psicologico" o "appoggio morale". Fatta questa premessa parto da una nota personale per la mia riflessione: una delle cose che mi spaventa quando mi reco dal medico è il "non sapere" ossia cosa accade di nuovo al mio corpo che non mi permette il "normale" controllo dello stesso. Immedesimandomi in un paziente che segue lo stesso iter di Moretti nel suo film, penso all'enorme grado di frustrazione che un paziente possa provare. Quest'ultimo infatti si reca dal medico già con il pensiero di avere qualcosa che non va, ma spesso questi non può nemmeno immaginarselo neanche quando il medico fa una diagnosi, figuriamoci quando si rende conto che neanche più consulti medici portano ad una conclusione. Tutto questo per dire che il medico dovrebbe rendere partecipe il paziente della propria malattia nel modo più completo e chiaro possibile. Se infatti il paziente, anche con una spiegazione banalizzata rispetto alla reale patologia del disagio manifestato, riesce a comprendere quale meccanismo stia dietro al suo malessere ciò lo aiuterà sicuramente nell'affrontare il periodo della malattia. Probabilmente questo non influisce direttamente nel processo di guarigione ma di sicuro rende migliore ( oltreché più consapevole ) il periodo della malattia. Ecco dunque perchè "ascolto e chiarezza". Il paziente difronte ad un lungo iter diagnostico rischia di viverlo come vittima di un misterioso accanimento della natura che non ha nome ne modo nel colpire e questo contribuisce enormemente ad avvilire e terrorizzare il paziente. Qui invece entrano in gioco l'ascolto e la chiarezza cui mi riferisco; il medico deve spiegare la malattia al paziente anche a costo di abbandonare il proprio elegante gergo o scadere nel ridicolo; ritengo infatti che in questo modo il paziente possa vivere meglio la propria condizione di malato dando un nome è un perchè al proprio stato. Inoltre questo ridurrebbe i casi di persone che sfinite da lunghi iter medici ricorrono a pseudoscienze, naturopati confusi o medicine alternative per i propri problemi; un triste esempio potrebbe essere la ragazza di 16 anni che qui a Firenze nel  2008 è morta per coma diabetico dopo sospensione della terapia insulinica consigliata dal naturopata di fiducia. Se in questo caso si fosse creata una piena cognizione critica della malattia e della terapia credo che nessun sano di mente avrebbe abbandonato l'insulina per delle vitamine! Ma al di là del caso specifico spesso mi imbatto in persone che non hanno cognizione del proprio malessere e questo ribadisco aggrava la percezione dello stesso oltreché a gettare le basi per casi come il suddetto.

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

 

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Personalmente ho trovato il film un po' banale. Due cose non mi hanno convinto particolarmente.

La prima è la costruzione della storia; il film mi sembra improntato su una forzata e abusata allegoria tra la guarigione fisica del Dr. Mckee e la sua guarigione "deontologica". La seconda è l'estrema stereotipizzazione della figura del medico (ripresa poi nella discussione successiva al film) in due categorie, luminare-cattivo o mediocre-empatico. Sebbene non abbia trovato il film particolarmente riuscito, molti sono invece gli spunti che possono essere presi per una riflessione; due sopratutto vorrei trattare e cioè la stereotipizzazione della figura del medico e il rapporto di questi con il dolore.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Dopo la visione del film si è tenuto un dibattito su alcuni temi tratti dal film sui quali mi piacerebbe riflettere.

Il primo è la percezione della figura del medico; ho notato una certa tendenza a "inquadrare" la figura del medico entro stereotipi come il medico arrivista, genio ma pessimo sotto il profilo del rapporto con il paziente (diciamo un Dr. House) oppure il medico "illuminato" con una vocazione al paziente e alla professione così totalizzante da impregnare ogni aspetto della propria esistenza (diciamo al contrario un Patch Adams). Ho inoltre percepito una generalizzata propensione ad indicare come modello positivo il secondo. Quello che mi spaventa della questione è la mancanza nell'opinione generale dell'idea di una "via di mezzo". A parer mio il medico per prima cosa è un professionista e come tale potrà essere (in senso meramente tecnico) un professionista capace o meno, e questo a prescindere dal rapporto che svilupperà con il paziente. Potranno esistere quindi medici capaci con una vocazione più o meno forte e altrettanti medici poco capaci con una più o meno forte vocazione al paziente.

Il rapporto con il paziente sarà funzione anche delle sensibilità del medico stesso e non può esistere pertanto un modello unico da indicare come positivo. Certo il modello del dr. McKee è ovviamente criticabile ma perchè si parla di una persona semplicemente maleducata e arrogante con i pazienti (rimanendo in ambito di finzione appare però paradossale la venerazione collettiva di un modello Dr. house che sebbene poco reale suscita un certo appeal ). All'interno invece di un rapporto guidato dalla buona educazione perchè il medico deve per forza essere così tanto empatico con il paziente? Perchè deve essere anche un finissimo psicologo capace di cogliere ogni lato della sofferenza (psicologica) del paziente e farsene carico? Siamo sicuri che tutta questa empatia sia così raccomandabile?

Da qui la mia seconda riflessione e cioè sul rapportarsi del medico con il dolore del proprio paziente. Quello che vorrei sottolineare è che non tutte le persone (e quindi i medici) sono in grado di sostenere rapporti fortemente empatici e che forse quei tanto additati "freddezza" e "distacco" non sono altro che uno strumento di lucidità del medico. Se provo a calarmi nei panni di un medico che deve comunicare al suo paziente una diagnosi infausta quello che mi chiedo è se la mia empatia è opportuna; voglio dire è proprio necessario che io mi identifichi nel paziente? Potrebbe inoltre essere poco gradito dal paziente stesso un mio maldestro tentativo di conforto psicologico? e infine, è vero per tutti che l'annullamento del distacco dal paziente continua a garantire una assoluta lucidità di giudizio da parte del medico? In merito il chirurgo che ha tenuto le fila del dibattito ha detto una frase che riassume benissimo quello che vorrei esprimere: "Controllo della distanza". E aggiungo io per concludere: "Controllo personalizzato della distanza".

 

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"Essere buoni significa essere in armonia con se stessi. La discordia viene quando si è forzati ad per essere in armonia con gli altri." O. Wilde


16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Film di notevole pregio e complessità tocca molti aspetti e sfaccettature della questione “rapporto medico-paziente”. Il film è incentrato sulla storia clinica di Pippi, dodicenne affetta da epilessia la cui origine e di tipo psicosomatico. Attorno alla storia di Pippi si svolge contemporaneamente quella del suo medico curante il neuro-psichiatra infantile Arturo. La costruzione del film attraverso questo incrocio di “vite” rende secondo me splendidamente fertile questo film. Inoltre ho apprezzato la “crudezza realistica” degli ambienti e dei personaggi che elimina quell'eccesso di pathos che ho riscontrato nel precedente film “un medico un uomo”. Questa crudezza permette di far spazio alle sfumature, di entrare nelle contraddizioni dei personaggi, di coglierne la complessità e di uscire da una banale riduzione della questione “rapporto medico-paziente” allo scontro tra opposti modelli buono-cattivo.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

In primo luogo non posso non notare la fine scelta dell'ambito medico entro il quale la regista porta la storia e cioè la psichiatria; questo fa si che inevitabilmente le questioni siano complesse e ciò rende difficile l'assunzione di posizione nette, ma al contrario permette solo riflessioni articolate. Sicuramente in questa storia emerge la positività del figura di Arturo; Arturo infatti riesce a trovare il giusto approccio al paziente, non si arrende dove altri rinunciano ed è amato da tutti i suoi pazienti. Il suo successo però ha un costo in termini di coinvolgimento; non c'è spazio per la propria vita privata che immancabilmente si fonde con quella professionale. Sebbene questo possa in prima analisi farci apparire Arturo come eroe, la regista ci mostra però in parallelo l'incapacità del medico di crearsi una propria realtà, una propria vita, oltreché l'incapacità di intrattenere rapporti diversi da quello medico-paziente. Quella che viene fuori quindi è sì l'immagine di un “super-medico” ma al contempo la registra ci offre più spunti di riflessione sulla natura di questa superiorità e cioè è l'incapacità del medico di essere anche uomo e quindi di avere una propria vita sociale a spingerlo a questo approccio medico così “personalizzato”, come una sorta di meccanismo di compensazione? Oppure la capacità di averi rapporti personali solo se “legittimati” dal contesto medico, unico entro il quale il nostro personaggio sa muoversi? O ancora, è la semplice vocazione medica totalizzante accompagnata da un disinteresse verso le cose che non siano “medicina” a fare di Arturo un eroe?

Quello che ho personalmente recepito è la figura di un medico anche lui a sua volta paziente; Il lavoro del medico per Arturo diviene un approccio alla vita, ricerca di relazione umane che, se non nel contesto medico, non sa instaurare altrimenti. Attraverso l'approccio clinico al paziente Arturo potrebbe imparare a conoscere e rettificare la propria condizione di buon medico ma uomo a metà.

 

 

 

 

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30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Film che ho molto apprezzato, forte, crudo e sfacciatamente realistico, pone dettagliata attenzione sulla sofferenza della protagonista mettendo a disagio lo spettatore; il film è costruito per sbatterci in faccia tutta la drammaticità dell'esistenza di una malata terminale sola al mondo. Nonostante il film sia ambientato prevalentemente in un ospedale e racconti l'infausta evoluzione del ricovero della protagonista, non credo che il tema fondamentale del film sia l'importanza di un rapporto medico-paziente attento alla sensibilità del secondo; certo è collaterale e anche in questo film il rapporto è decisamente da migliorare da parte del medico, ma credo che sia stata una scelta registica utile alla storia. In questa vicenda si assiste al tentativo di "dominio intellettuale" del grande nemico della paziente cioè la malattia e la morte, dominio che si concretizza spesso come sarcasmo e cinismo della protagonista nei confronti della sua avversa situazione; probabilmente l'inclusione di medici più "attenti" e meno maldestri (come lo specializzando che dice in faccia alla paziente che è totalmente disinteressato se non infastidito dalla parte clinica e i pazienti ) non sarebbe stato funzionale alla rappresentazione del cammino interiore della protagonista. 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Davanti alla crudezza e alla drammaticità del film sinceramente non trovo grandi spunti di riflessione sul rapporto medico-paziente se non il solito topos dell'umanizzazione dello stesso che in questo caso mi pare fortemente adeguata, ma come ho detto prima in questo film credo sia un tema secondario; non dimentichiamoci la figura dell'infermiera, diametralmente opposta a quella dei medici nel film, ma pur sempre facente parte del personale sanitario. Credo che la riflessione più fertile che si possa fare su questo film (in termini di professione medica) la necessità d'imparare a rapportarsi con la morte del paziente e l'acquisizione del concetto di dignità della stessa. Non tutti i medici fortunatamente avranno spesso a che fare con pazienti terminali in condizioni così drammatiche, ma credo che l'esercizio del pensiero sulla morte e sulla sua etica sia fondamentale per un medico. 

 

 

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22 Marzo 2011: MEDICI PER LA VITA di Joseph Sargent, USA 2004, 110'


Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Non conoscevo al storia di Vivien Thomas e mi ha colpito molto. Il film narra della storia di Vivien Thomas, aspirante studente di medicina nell'America degli anni '40. Il protagonista si trova ad affrontare l'impossibilità di realizzare il suo sogno sia per le ristrettezze economiche cui si trova, sia per il colore della sua pelle. Il film e abbastanza scorrevole e semplice, ma nel complesso molto gradevole.

   

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Anche se la storia muove da una serie di preamboli sfavorevoli per il protagonista, l'evoluzione poi ci porta ad un "lieto" fine. Penso che l'epilogo della storia sia il sogno di ogni medico e cioè l'eseguire per la prima volta un intervento a cuore aperto per salvare la vita di un paziente altrimenti destinato ad un infausto destino. Per quanto il film parli da solo vista la gradevole semplicità con cui è costruito, una riflessione che viene da fare dopo la visione è quella dell'importanza della collaborazione tra professionisti. I medici, ma anche tutte le figure sanitarie, dovrebbero essere formati anche per la cooperazione e non solo nel proprio specifico settore; penso sia di comune esperienza confrontarsi con certi medici che iniziano e continuano lunghi scarica barili tra vari specialisti senza che poi magari vi sia reale collaborazione e colloquio. Probabilmente non sempre è necessario un contatto stretto tra due medici che si "passano" il caso clinico, ma forse sarebbe di sicuro più efficiente la gestione della degenza.

 

 

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5 Aprile 2011: L'OLIO DI LORENZO di George Miller, USA 1993, 129'


Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Anche questo film ci racconta una storia decisamente eccezionale, ossia la storia di due genitori che per amore filiale divengono "ricercatori indipendenti" per trovare la cura al rarissimo morbo che affligge il proprio figlio. Il film lo avevo già visto molti anni fa e ricordo che mi colpì la crudezza della storia. La storia effettivamente grazie alla complessiva semplicità della struttura del film risulta molto efficace nell'impressionare il pubblico.




La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Da questo film emerge chiaramente la una visione della professione medica agghiacciante; in questo caso i medici risultano restii a condividere i progetti e le intuizioni (che poi si verificheranno esatte) dei coniugi Odone, quasi fossero una sfida o un insulto alla loro formazione. Il film mi ha fatto venire in mente un parallelismo con la realtà contemporanea sulla ricerca scientifica nel campo delle malattie rare; in questo caso non sono più i singoli medici a fare "ostruzionismo" ma l'insieme di fattori "pratici" come lo scarso interesse, la scarsità dei fondi e quindi di conoscenze. La difficoltà di condurre ricerca nel campo delle malattie rare è un problema che tutt'oggi persiste e continua a riproporre la storia degli Odone in nuove forme. Si potrebbero scrivere fiumi su questo ma preferisco concentrarmi sulla meravigliosa eredità dei coniugi Odone ossia il "Myelin Project", ente che ha stanziato e che continua a stanziare fondi per la ricerca nel campo delle malattie mielo-degenerative e con i cui mezzi negli ultimi anni si sono fatte interessanti scoperte sull'argomento, tra cui la scoperta di alcune popolazioni cellulari in grado di rigenerare cellule di Schwann (le cellule "mielinizzatrici" del SNP).

 

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Sito del Myelin Project con gli ultimi articoli e progressi scientifici pubblicati http://www.myelin.org/2008-news-from-the-laboratory/  





19 Aprile 2011: PATCH ADAMS di Universal, USA 1998, 115'

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Il film Patch Adams è un film che risulta carino alla prima visione, vuoi per il personaggio estroverso, vuoi per l'emotività della storia o la bravura di Robbie Williams, ma ad una visione ulteriore sa di film da botteghino (citando le parole dello stesso Dott. Patch Adams) e inoltre è viziato da una eccessiva edulcorazione della storia, tale da rendere il film quasi stucchevole. Personalmente non trovo il film entusiasmante, ma la storia del vero Patch Adams è invece ricca di spunti di riflessioni e note positive.



La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

La "Filosofia" del Dott. Patch Adams riprende secondo me due aspetti molto importanti per quello che concerne la professione medica. Il primo è quello della concezione allargata del concetto di "Salute", che anche se espresso con i suoi modi estrosi anticipa quello che poi verrà affermato dalla Oms nel 1978 con una nuova definizione di salute; questa infatti non è solo concepita come assenza di malattia ma prevede altri fattori quali il benessere psico-fisico, fattore umano che Patch introduce nella relazione con il paziente attraverso la teoria del sorriso. Altro "credo"  del Dott. Adams che condivido a pieno è quello di una sanità gratuità, accessibile a tutti e costruita attorno al paziente; sebbene in Italia la sanità (anche se ultimamente con molti freni) è comunque accessibile a tutti (quantomeno come principio), per il mondo americano questo è stato lungamente impossibile ed è stata una conquista (per altro non completa) della recente amministrazione Obama. Mentre l'America quindi non aveva un'idea simile di assistenza sanitaria il Dr. Adams progettava il suo Gesundheit! Institute (http://www.patchadams.org/Gesundheit_Global_Outreach) un ospedale dove le cure sono garantite a tutti gratuitamente con una gestione più "comunitaria" che "aziendale", modalità decisamente lontana dal resto del contesto americano. 

 

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 Sito della fondazione Gesundheit! Institute  http://www.patchadams.org/Gesundheit_Global_Outreach


 

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