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Branchetti Marco

Page history last edited by Mark389 12 years, 10 months ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Ironia e tragedia si fondono perfettamente nel un capolavoro di Nanni Moretti. Proprio l’ironia, infatti, sembra la rete in cui è intessuta la storia: tutte le ricette mediche ed ogni singola medicina conservate, il fantomatico “Principe” della dermatologia, perfino lo stesso girovagare sulla spiaggia con calzettoni di lana e camicia a maniche lunghe. Sono aspetti che fanno sorridere sulla buona fede, forse eccessiva, del paziente nel medico, ma allo stesso tempo risulta tragica la consapevolezza che chi dovrebbe curarlo non lo ascolta, lo abbandona a farmaci dai nomi sempre più improbabili, “prendendosi gioco”di  un povero uomo che desidera solo certezze. La tragedia si rispecchia anche nella figura del povero Nanni Moretti che non solo è sottoposto allo stress dello spostarsi da uno studio medico all’altro, all’attesa in coda per farsi ricevere o per comprare medicine, ma è preoccupato da sintomi che non spariscono, da certezze che non arrivano, da pareri che si contraddicono ma che non portano da nessuna parte. Per finire tutto si articola in un contesto di cinismo, indifferenza dei medici. Deve far riflettere questo atteggiamento: trattare un uomo come un semplice caso da risolvere, non sforzarsi di vedere i sintomi oltre le proprie conoscenze specialistiche non vuol dire essere un medico.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Questo film permette di riflettere sulla preparazione di un medico non solo dal punto di vista culturale, ma anche psicologico. Guadagnarsi la fiducia del paziente è importante: se al paziente viene dato il giusto spazio e la giusta importanza, non solo alla malattia che ha, ma anche dal punto di visto umano, il rapporto medico-malato viene agevolato, c’è un clima di maggior libertà e confidenza ad esprimere perplessità e a dare informazioni utili per individuare ciò che non va. Lo stesso paziente se si sente in buone mani potrà seguire con maggiore accortezza la cura che il medico gli prescrive. Ecco perchè Nanni Moretti si sente a suo agio nello studio cinese in quanto l’atmosfera è migliore e c’è disponibilità maggiore nei suoi confronti: torna spesso e volentieri da loro nonostante all’inizio le loro cure non abbiano effetto. Inoltre in questo studio emerge un altro aspetto importante: i medici all’interno collaborano tra loro, si scambiano opinioni, cosa a mio parere determinante per risolvere al meglio il caso. Tutti gli altri medici, invece, non ascoltavano e nemmeno leggevano le precedenti cure di Nanni Moretti. Ognuno si concentrava sul proprio campo, sulle proprie cure escludendo tutto ciò che non riguardasse la propria competenza e ovviamente non prendeva in considerazione l’idea di un consulto per non dare l’idea di essere un’inetto.

Ecco che sono giunto alla conclusione che la professione medica è davvero difficile non solo per le conoscenze di cui necessita, ma mi rendo conto che l’umiltà verso se stessi e verso gli altri è indispensabile: le sole conoscenze non ci rendono dei medici completi.

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

 

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Il film di Randa Haines è un mix di emozioni e riflessioni che pone lo spettatore davanti ad una storia dalla quale è impossibile fuggire. Senza mai cadere nel patetico, si viene travolti da un fiume in piena di sentimenti: superbia, paura, ansia, certezza, speranza. Io stesso ho subito il fascino di diventare parte della storia percorrendo insieme a William Hurt la vita di un medico che ha visto crollarsi il mondo e tutte le sue certezze addosso, come un pesante macigno. Ha vissuto la paura della morte, la disperazione di essere solo al mondo senza una mano amica a cui affidarsi, ma ha saputo imparare dai suoi sbagli prendendo ciò che di sbagliato c’era nei suoi rapporti col paziente e trasformarlo. Passare dall’altro lato della barricata gli è parsa inizialmente una pena crudele, ma alla fine è stata la sua ancora di salvezza che gli ha permesso di recuperare quella umanità e umiltà che aveva perso nel corso della sua carriera medica. Fondamentale è stato l’incontro con una donna, June, anch’essa malata di cancro, con la quale ha condiviso tutto ed ha capito che è importante avere un atteggiamento positivo verso la vita e verso gli altri. Il film quindi non è una mera ricerca di commozione e pianto, ma un vero capolavoro della riflessione  il cui messaggio dovrebbe essere chiaro ad ogni medico o aspirante.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

La visione del film mi ha lasciato un messaggio secondo me di grande valore: “anche i medici possono ammalarsi”. Semplice, ovvio se vogliamo, ma molto spesso dimenticato. Se ci si pensa il titolo del film sottolinea proprio questo: “un medico, un uomo”. In fin dei conti il medico non è la persona invincibile che può solo guarire o al massimo fare una diagnosi sbagliata, ma è anche un essere vulnerabile ai capricci della natura. Un medico non è una sorta di divinità, un guru del corpo umano: un medico si ammala, un medico deve curarsi, un medico diventa a sua volta paziente, poiché, in fin dei conti, si è più bravi ad esser medici degli altri che non di noi stessi. Ecco allora che l’essere uomo, e ancora di più paziente, mette di fronte a tanti problemi che da medico tendiamo a dimenticare: attese, file, iter burocratico, paure, incomprensioni, senso di smarrimento, solitudine. Per un medico come Jack scendere dal suo trono, piombare nell’oblio di essere un malato come tanti altri e rendersi conto che la sua posizione di medico non gli concede immortalità, è forse l’affrontare una dura realtà che inconsciamente si cercava di celare a noi stessi. Allora la cosa più giusta è quella di restare uomini, di non vedere negli altri una semplice malattia, ma essere per loro un fratello, uno zio, un padre, un amico pur mantenendo la propria professionalità. Curare qualcuno è innanzitutto instaurare tra due persone un rapporto di fiducia.

 

 

 

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16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Rispetto ai precedenti film, viene affrontata la figura di un medico completamente diversa. Se infatti gli altri due protagonisti venivano inizialmente visti sotto una luce negativa, dovuta soprattutto alla poca umanità che dimostravano, stavolta il dottor Arturo colpisce invece per la sua testardaggine, l’impegno, la compassione che mette nell’affrontare il caso della impertinente Pippi. Le cause dell’attaccamento, quasi eccessivo, al caso della ragazzina non si devono al solo piacere di compiere il proprio mestiere, ma di impegnarsi al massimo per affrontare questa nuova sfida.

Il fallimento nella vita familiare lo spinge a cercare di dimostrare il suo valore almeno nella professione medica, in cui crede profondamente non tanto come scienza esatta, ma come dialogo e collaborazione tra medico e paziente. Ecco perché nell’ambiente grigio, tetro e mal organizzato della sanità romana spicca la sua figura di “precursore” poiché decide di studiare il caso della ragazzina mettendosi in gioco il più possibile, analizzando la sua situazione privata e clinica per instaurare un rapporto di fiducia. Questo metodo, seppur con difficoltà, si rivela vincente e permette di capire che la malattia d Pippi è autoindottta dalla situazione tragica e distaccata che vive in famiglia. Il carattere scontroso e tenebroso della bambina si rivela uno scudo contro la solitudine familiare e solo con Arturo riesce ad aprirsi piano piano, aiutandola non solo nella malattia. Addirittura il rapporto pare capovolgersi in alcune situazioni lasciando a Pippi il compito di fare l’analista nei confronti di Arturo. Anche un medico può imparare tanto dai suoi pazienti ed in fondo senza questi ultimi nulla della professione medica avrebbe senso.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

All’inizio degli studi la motivazione e l’entusiasmo portano spesso a pensare: “sarò il miglior medico” oppure quando si parla di errori sentenziamo: “io non mi comporterò mai così”. Purtroppo non è facile arrivare all’eccellenza professionale e soprattutto umana. I film visti ci hanno messo di fronte a due opposti estremi: la totale non curanza dell’aspetto umano a favore della professionalità contro il aperto dialogo ed interazione col paziente un po’ a discapito di serietà e professionalità. Abbiamo visto gli effetti disastrosi del primo comportamento, quindi sarebbe logico ritenere giusto il secondo. Sicuramente i risultati conseguiti con Pippi sono eccezionali. Purtroppo l’interazione col paziente, soprattutto se profonda, puo’ influire sulla capacità razionale di un medico: gli stessi sentimenti esterni al lavoro si ripercuotono sulla professione alle volte in maniera positiva portando ad un impegno maggiore per fuggirvi, altre volte purtroppo no. Ecco che probabilmente il “giusto” medico sta nel mezzo ai due eccessi. Mi spiego meglio: il bravo medico deve sapersi adattare all’interlocutore e alle situazioni, scegliendo il comportamento opportuno. E’ davvero difficile essere un dottore bravo e capace, ma proprio questa sfida continua rende bellezza alla professione.

 

 

 

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30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Ancora una volta questo film ci ha rimarcato come l’errore più grande che un medico possa commettere è lasciare totalmente da parte l’aspetto umano del paziente. La prima scena sconvolge subito per la semplicità con cui il medico comunica alla donna il tumore, ma allo stesso tempo per la complessità del linguaggio usato per dirglielo. All’interno dell’ospedale le cose non migliorano: sensibilità, pudore, rispetto e comprensione spariscono e vengono calpestati dai medici che si comportano come robot chiusi nelle loro abitudini, a volte inutili, come chiedere “come si sente?” o suggerire di “continuare ad urinare”. I numeri, i valori della cartella clinica sono l’unica cosa importante per i dottori tanto che il colloquio pare escludere il paziente. Un altro difetto, a mio parere, è la ricerca spasmodica degli specializzandi di assomigliare il più possibile al medico anziano di riferimento: si formano brutte copie di dottori capaci per lo più di far propri i difetti invece che i pregi. Ne è un esempio il giovane medico che segue Vivian, il quale conclude ogni colloquio con la parola “ottimo” o “eccellente” come faceva il medico anziano. Meglio far tesoro, quindi, di questi estremi personaggi rappresentati sulla pellicola e non abbandonare durante la propria formazione medica l’umanità e la sensibilità verso chi soffre ed ha bisogno del rispetto e del conforto che merita.

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Restare del tutto insensibili dopo la visione di questo film credo sia impossibile, anche per un medico. Il regista Mike Nichols usa tutte le sue “armi” ed il suo impegno per catturare l’attenzione dello spettatore e rendere il dolore tremendamente percepibile. La protagonista Vivian ha un cancro all’ovaio e si lancia nella sfida che freddamente il medico le ha lanciato: vuole affrontare la malattia con la stessa forza, ironia e distacco con cui ha affrontato la vita. Ben presto però si rende conto di essere solo una cavia in quell’ospedale, di aver perso di umanità e capisce che quelle cure che dovrebbero salvarla, la distruggono con i loro effetti collaterali. Vivian non molla, affronta con dignità le domande di routine dei medici, ignora il loro rapporto unidirezionale con la cartella clinica e non con lei, non prende sul serio il loro perenne invito a continuare ad urinare, ma piano piano deve arrendersi al degradarsi del suo corpo ed ecco che, per la prima volta, la sua forza d’animo vacilla. Solo una infermiera, in un ambiente che non le offre appigli, capisce il suo stato d’animo e le regala gli ultimi sorrisi della sua vita: muore con dignità e con quella Morte di cui John Donne parlava con tanta passione nelle sue poesie.

 

 

 

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22 Marzo 2011: MEDICI PER LA VITA di Joseph Sargent, USA 2004, 110' 

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Il film di Joseph Sargent, tratto da una storia vera, risulta davvero piacevole e scorrevole per lo spettatore. Innanzitutto è da elogiare il modo in cui il regista ripropone questo evento: è facile lasciarsi coinvolgere dalla realtà dei personaggi grazie alla semplicità dei dialoghi, che lasciano spazio alla personalità dei protagonisti invece di infiocchettare tutto in tecnicismi e virtuosismi medici. La storia del primo intervento al cuore resta, comunque, un pretesto per affrontare diverse problematiche storiche e non. In primo luogo viene perfettamente inquadrata la problematica razziale nell’America di quel periodo: Vivien, il geniale assistente di laboratorio del famoso dottor Blalock, è intrappolato in un razzismo dilagante che gli impedisce di essere ritenuto al pari dei bianchi e lo costringe ad entrare ogni giorno “dalla porta di servizio”. Tutto ciò e altri fatti gli precludono la possibilità di realizzare il suo sogno di studiare medicina, ma non si scoraggia e trova grande appoggio nel dottor Blalock. E’ proprio grazie alla loro collaborazione che si arriverà alla soluzione del problema di un intervento molto difficile al cuore. La fama e la conoscenza del dottor Blalock nulla hanno potuto da sole senza le eccezionali doti di progettazione di Vivien: la cooperazione è la via giusta per risolvere problemi insormontabili per le capacità del singolo.

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Dal film emerge prepotentemente una lezione sull’importanza del dialogo tra medici al fine di integrare le proprie capacità e confrontarsi. L’ individualismo molto spesso rappresenta un vicolo cieco e finisce per farci sbattere contro i nostri limiti. Ciò non significa esser dei cattivi medici: ognuno può eccellere nel proprio campo ma non ci deve essere alcun timore nel richiedere un parere, una consulenza, un aiuto a chi può agevolarci nella cura di un malato. Un paziente non deve rappresentare un trofeo personale di successo: la sua salute è più importante di qualsiasi riconoscimento. Inoltre un altro aspetto emerso dalle parole del dottor Blalock è la sfida che il medico lancia alla morte. L’impegno preso è encomiabile e lo spinge ad impegnarsi con tutte le proprie energie in innovativi metodi per la cura. Credo comunque che un medico debba prendere atto dell’impossibilità di sconfiggere la morte, dominare la natura, ma non deve cadere nella trappola dell’accanimento terapeutico o al contrario dell’abbandono del paziente una volta compresa l’impossibilità di essergli utile.

 

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5 Aprile 2011: L'OLIO DI LORENZO di George Miller, USA 1993, 129' 

 

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

La visione del film lascia nello spettatore  un grande senso di speranza e conforto. Molte volte si commette l’errore di affidarsi completamente a qualcosa o qualcuno: per la salute, in particolare, la valutazione dei medici è tutto. Anche loro, però, devono guardare in faccia ogni giorno i propri limiti e la lotta contro la malattia non li vede giocare in un ruolo primario, poiché quello è del paziente, della sua voglia di lottare e della speranza che i suoi cari gli infondono. E’ proprio questo che il film ci insegna: l’amore e la cocciutaggine della madre e del padre vengono trasmesse al piccolo Lorenzo affinchè non si arrenda e continui tenace in questa lotta per la sua vita. I suoi genitori, pur non conoscendo nulla di medicina, usano tutti i mezzi a loro disposizione per trovare quella soluzione che i medici non vedono. Quando riescono nell’intento, il loro entusiasmo contagia tutti: il medico curante di Lorenzo e perfino un’industria chimica che accetta di portare avanti la sperimentazione di una nuova cura. Questi sforzi vengono premiati e permettono di aggiungere anni preziosi alla breve vita di  Lorenzo, nonostante le preoccupazioni dei medici sulla reale efficacia della cura e sugli effetti collaterali. Eppure perché non rischiare se si ha la possibilità di donare anche un solo secondo di vita in più a chi ancora ha voglia di lottare per tenersela stretta?

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Il film mi ha mostrato un nuovo aspetto della professione. Il medico non deve esser lasciato solo a fare il suo mestiere, non è invincibile, ma necessita di aiuto in primo luogo dal paziente, che deve reagire alla malattia, accettare le cure e combattere, poi dalle persone attorno al malato che possono e devono aiutarlo nella sua lotta. Non è un atteggiamento corretto quello di chiudersi nelle proprie conoscenze, ma si deve creare una collaborazione perché, come questa vicenda ci insegna, la forza di volontà degli altri può farci vedere le cose da un’altra prospettiva portando alla luce nuove soluzioni. Nella seconda parte del film però la scienza, sempre in cerca di certezze, sembra voler frenare le speranze sul nuovo composto sperimentale in grado di rallentare la malattia del piccolo Lorenzo e di molti altri come lui: è solo un esperimento, non vi è una sicurezza, ma perché non continuare ad usare un metodo che ha portato giovamento? In fondo le certezze sono sempre così poche…

 

 

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19 Aprile 2011: PATCH ADAMS di Universal, USA 1998, 115'

 

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

E’ davvero un bel film, capace di far ridere, di far riflettere, di far commuovere. In questa miscela di emozioni vengono affrontati tanti temi, dalla professione medica ai sentimenti umani, senza risultare pesante, anzi mantenendo viva l’attenzione dello spettatore fino alla fine. Ispirandosi ad una storia vera, il film ripercorre la vita di Hunter Patch Adams, uomo che si ricovera spontaneamente  in ospedale per aver tentato il suicidio. Poco alla volta impara ad apprezzare la vita, soprattutto perché scopre di avere un dono speciale: la sua allegria è una ricetta infallibile contro ogni malattia. Per questo pensa di diventare medico se non altro per sfruttare al meglio il suo ruolo, ma dovrà scontrarsi con una realtà ben diversa: un ambiente raccolto intorno a nozioni in cui la parola “compassione” è stata dimenticata con il tempo. Il suo entusiasmo e la sua ostinazione lo portano a lottare per i suoi ideali e, alla fine, è la sua “malattia” a vincere: quell’  eccesso di felicità che tanta gioia regala ai pazienti e alle persone che incontra.

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

L’immagine che fuoriesce dalla pellicola è quella del medico “romantico”: non sono i soldi e la fama a spingere Hunter Patch Adams verso questa professione, ma il desiderio di aiutare. Le persone, non la malattia, tornano ad essere il perno attorno a cui ruota la vita medica tanto che ogni paziente può diventare medico a sua volta nei confronti di un altro, non in quanto profondo conoscitore della medicina, ma come conforto e gioia. In senso lato tutti possono fare il dottore perchè è colui che si prende cura degli altri non solo prescrivendo farmaci e sfornando diagnosi, ma diventando cosciente che la persona davanti a te prova dei sentimenti (emblematica scena in cui il compagno di stanza di Patch gli chiede aiuto perché, nonostante sappia curare una donna, non riesce a farla mangiare). Quindi perché preferire il “medico cinico”, oggettivo, freddo, fermo di quello che ha letto sui libri, al medico umano capace di ridere coi pazienti, condividerne le paure e le speranze? Non credo sia impossibile cercare di fondere umanità e conoscenze, semmai è difficile: penso che possa essere così bello sentirsi afflitti da “eccesso di felicità”.

 

 

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