Consales Alessandra


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Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Nell'ultima mezz'ora di "Caro diario" Nanni Moretti esprime tutta la sua (e purtroppo non solo) sfiducia nei confronti della categoria medica. Egli, infatti, racconta un fatto che lo riguarda molto da vicino: la sua malattia, il linfoma di Hodgkin, e il rapporto che in quel periodo cosi' drammatico della sua vita ha avuto con gli svariati dottori che l'hanno visitato. Anche solo il fatto che il regista/attore abbia cambiato cosi' tanti medici dovrebbe far riflettere: chi si fida non ha bisogno di secondi pareri, figuriamoci di terzi o quarti. Si tratta quindi, innanzitutto, di un problema di fiducia. Tale problema, pero', nasce da una questione ancora piu' seria: la paradossale incomunicabilita' medico-paziente. Il paziente arriva, descrive al dottore i propri malesseri e le proprie paure, si mette a nudo, in tutti i sensi, e il medico cosa fa? Lo visita, si', certo, ma sostanzialmente lo contraddice, non da' retta alle sue supposizioni, IMPONE le proprie idee, convinto di essere il depositario unico e assoluto della verita', clinica ma forse non solo. Vediamo quindi un susseguirsi di diagnosi diverse e tutte, allo stesso modo, drammaticamente sbagliate: "Lei ha una pelle molto secca, vada in un posto caldo. Si sa, il freddo puo' solo peggiorare la sua situazione", "Lei e' troppo stressato, beve troppi te'", "E' sicuramente un'allergia di tipo alimentare" (affermazione, questa, a dir poco sconvolgente se esce dalla bocca di un medico, dal momento che un'allergia alimentare provoca orticaria, bolle in tutto il corpo, non il prurito di cui invece Moretti soffre), "E' un fatto psicologico, Moretti, io la vedo perdente. Perche' si sta grattando? Ma non c'e' un bisogno cosi' urgente" (addirittura questo medico pensa che il paziente stia mentendo o, nella migliore delle ipotesi, esagerando la sua sintomatologia). Come se tutto questo non fosse gia' abbastanza, ogni medico al quale Moretti si rivolge "snobba", per cosi' dire, i farmaci prescritti dai colleghi e ne consiglia altri, mostrando una odiosissima mancanza di rispetto nei loro confronti: e se i medici non si rispettano tra di loro, come fa il paziente a rispettarli a sua volta? Inevitabilmente si rivolge altrove: in particolare ad una riflessologa, che gli consiglia impacchi con foglie di cavolo, e ad un centro di medicina cinese, dove si sottopone a varie sedute di agopuntura. Moretti, non certo uno sprovveduto, non nutre nel loro aiuto maggiori speranze di quante non ne nutra nei confronti dei grandi dermatologi ai quali si e' rivolto. Lo ammette egli stesso: farsi fare i massaggi era "bello, piacevole e rilassante"; i medici cinesi erano "gentili, l'atmosfera simpatica e allora faccio anche altri tentativi". Moretti scopre un modo del tutto diverso di curare, o quantomeno di provarci, un modo piu' personale, piu' interessato, scopre la possibilita' di un contatto umano, non solo a livello fisico, inevitabile, ma anche e in particolar modo a livello umano. Parlare, ma soprattutto ascoltare. Paradossalmente, poi, e' proprio il Dr. Yang a dare una svolta decisiva alla situazione, chiedendo a Moretti di fare una radiografia al torace. Da questa e dalle due TAC successive viene fuori che il paziente ha un incurabile sarcoma al polmone. Errore del radiologo, gravissimo perche' rappresenta, immagino, un colpo durissimo a livello psicologico per Moretti e la sua famiglia. Moretti e' affetto, in realta', da un linfoma curabile, come afferma in maniera ben poco elegante (ulteriore smacco alla figura del medico) un chirurgo in sala operatoria. Si conclude cosi' l'odissea del nostro eroe moderno, o meglio, la sua prima parte: ora dovra' iniziare la chemioterapia, certo, ma si trattera' comunque di un percorso ben preciso, con uno scopo ben chiaro ed evidente, la guarigione, la vita, molto diverso da quello affrontato finora, l'apparentemente pointless errare di ospedale in ospedale, allo sbando in una realta' che non si riesce a comprendere: la malattia e' una certezza, dura da accettare, ma pur sempre un qualcosa di sicuro, di fermo, di stabile e conoscibile, tutto il contrario della scienza medica come Moretti l'ha conosciuta.

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

A dire la verita' questo film mi ha molto sconvolta. I punti su cui mi vorrei soffermare sono sostanzialmente due. Innanzitutto la gia' citata incomunicabilita' medico-paziente che porta i dottori a sommergere, letteralmente, il paziente di medicine inutili, che tutto vanno a colpire tranne cio' che maggiormente preoccupa il povero Moretti. Al punto che questo si ribella, legge i famosi foglietti illustrativi e butta via una buona parte di quelle ingombranti scatolette dai nomi complicati. Cio' deriva sostanzialmente dal fatto che il centro focale che convoglia tutto l'interesse del medico non e' piu' il paziente o la sua percezione del dolore e della malattia, quanto piuttosto il sintomo piu' evidente e che maggiormente e' inerente alla propria professione. Mi spiego meglio: e' lampate qui la tendenza dei medici a non considerare piu' il paziente nel suo insieme, bensi' a limitarsi all'area della propria specializzazione: cosi' il dermatologo vede il prurito e cura il prurito, l'allergologo sospetta una allergia alimentare e cura una allergia alimentare. In particolare, in questa occasione, il paziente subisce 30 punture sulla schiena al giorno per una settimana: una tortura. Egli e' diventato l'oggetto (ad essere crudamente oggettivi quasi la vittima) non piu' il soggetto della medicina. E la medicina e' diventata un qualcosa di fine a se stesso, e' diventata medicine for medicine's sake, non piu' finalizzata, dunque, alla salute del paziente, bensi' all'autoaffermazione di se'. Il secondo problema, dunque, e' rappresentato dall'eccessiva settorialita', dall'eccessiva specializzazione dei medici di oggi. Per cui un dermatologo si occupa solo ed esclusivamente della pelle, non curandosi affatto degli altri sintomi che il paziente presenta ma che non lo riguardano in quanto dermatologo. Questa e' la base sui cui si fonda il dramma di quest'ultima parte del film: se, infatti, il primo medico avesse ascoltato il paziente, se si fosse appuntato che egli presentava, oltre ad un terribile e fastidioso prurito agli arti, anche una aumentata sudorazione e i segni di un repentino dimagramento, se, in definitiva, non si fosse limitato ad osservare il suo orto e avesse guardato oltre la siepe, probabilmente e forse, anzi, sicuramente avrebbe riconosciuto alla prima il linfoma di Hodgkin (la cui sintomatologia e' descritta chiaramente anche nell'Enciclopedia Medica Garzanti nella quale alla fine Moretti controlla, per scrupolo e curiosita'), risparmiando cosi' al paziente 7/8 mesi di frustrazione, dolore, angoscia e preoccupazione. Fare il medico dovrebbe significare qualcosa di piu' che prescrivere tonnellate di medicinali (cosa sono/siamo? schiavi delle case farmaceutiche?!), dovrebbe voler dire "[scegliere] il regime per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, e [astenersi] dal recar danno e offesa", come recita il giuramento di Ippocrate. Il paziente, quindi, prima di tutto, non il nostro orgoglio (e la nostra presunzione) di "principi" della medicina, con anni di studi alle spalle e un pezzo di carta in mano. "Se adempiro' a questo giuramento e non lo tradiro', possa io godere dei frutti della vita e dell'arte, stimato in perpetuo da tutti gli uomini; se lo trasgrediro' e spergiurero', possa toccarmi tutto il contrario".

 

 

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19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Film molto interessante che ci mostra come "passare dall'altra parte", mettersi nei panni di qualcun altro possa radicalmente cambiare le nostre opinioni fino a poco prima apparentemente incrollabili, adamantine. Jack McKee, il protagonista, e' un medico molto bravo, capace e abile, che manca pero' in un certo qual modo del lato umano. Manca di empatia, uno dei requisiti a mio parere fondamentali per chi si appresta a diventare medico o lo e' gia' da tempo. Jack riassume il suo ruolo e la sua professione in generale in tre semplici verbi: "entrare, aggiustare, andarsene". Tutto qui. Non c'e' spazio per i sentimenti che anzi, a suo dire, non solo esulano dalle competenze di un medico, ma addirittura lo rallentano e limitano. Questa visione estremamente miope cambiera' radicalmente nel momento in cui a Jack verra' diagnosticato un tumore alla laringe ed egli si trovera' quindi, come dicevo prima, dall'altra parte. Sperimentera' quindi sulla propria pelle l'intero sistema ospedaliero con tutto il suo carico di medici indifferenti e freddi, burocrazia sterile e inconcludente, analisi fastidiose e frettolose. In ospedale non ce'' tempo da perdere, nemmeno per rassicurare un malato piu' o meno terminale che sia. Alla deriva in quest'incubo apparentemente senza fine Jack trova conforto nella solidarieta' e nella compagnia di una ragazza con un tumore al cervello, June. Lei lo aiutera' ad aprire gli occhi, a rendersi conto che la carriera e' solo una piccolissima parte dell'esistenza umana, che ci sono anche la famiglia, l'amore, l'umana compassione. A cosa serve essere il migliore nel tuo campo se poi ti ritrovi da solo? Alla fine del film Jack si fa operare (non dall'otorino freddo e distaccato-una specie di Jack in versione femminile-che gli aveva diagnosticato il cancro ma da un altro medico che prima della malattia Jack aveva sempre snobbato e preso in giro) e guarisce. June invece non e' cosi' fortunata: muore. Ma prima di morire lascia a Jack una lettera nella quale lo sprona ancora di piu' ad aprirsi al mondo, agli altri, allo scopo di essere finalmente felice. Jack torna quindi a lavoro ma qualcosa in lui e' cambiato: non e' piu' il cinico medico di un tempo. E' un uomo pronto ad ascoltare gli altri, a mettersi nei loro panni e a cercare di fare il possibile per aiutarli, per rendere migliore una situazione tragica come quella che stanno vivendo in quel momento in ospedale, per non farli sentire soli e ignorati. CAmbiare, quindi, e' possibile e alla fine: meglio tardi che mai :)

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Questo film mi e' piaciuto molto e ho molto apprezzato il messaggio che vuole trasmettere anche se ritengo che dare un'immagine sempre cosi' negativa dei medici sia alquanto controproducente. Non tutti i medici sono come e' Jack all'inizio! La realta' ospedaliera e' piena di medici pronti a mettersi in discussione e ad aiutare sinceramente il prossimo, senza secondi fini, a fare turni extra per seguire un paziente ed essergli vicino in ogni modo possibile. Non parlo senza cognizione di causa: ho visto questo meraviglioso atteggiamento in molti medici appena specializzati che lavorano nel reparto di terapia intensiva all'ospedale di Prato. Giovani pieni di voglia di lavorare e di aiutare, con grandi competenze mediche che si sommano ad un lato umano profondo ed encomiabile. Spero di diventare un medico disponibile e aperto come loro, un giorno. Un bravo medico, nel vero senso della parola. Non solo abile con il bisturi, ma anche "buono", altruista e capace di pietas.

 

 

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16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Quello che piu' mi ha colpito di questo film e' stato, oltre ovviamente alla figura di Arturo, sulla quale mi soffermero' dopo, il rapporto che Pippi ha con la sua malattia. La dodicenne vede l'epilessia come qualcosa di alienante, come un enorme difetto che la rende diversa dal resto dei ragazzi della sua eta', che la umilia, costringendola ad indossare in classe un "cappellino" protettivo, che le fa desiderare di essere nata "monca o zoppa", tutto tranne quello che le e' capitato. Perche' l'epilessia "e' un male che fa schifo, fa schifo a tutti, anche a mamma e papa'".   

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Dei tre film visti finora questo e' stato l'unico dal quale e' emersa un'immagine interamente positiva del medico. Un medico, Arturo, che si impegna al 100% per i suoi pazienti (e poco importa se la sua vita sociale ne risente), che non solo li cura, ma li fa sentire amati e anche protetti. Emblematica, a questo proposito, e' la scena in cui i ragazzi ricoverati scappano dal policlinico per andare a fare un giro: pieni di gioia e di aspettative restano delusi da un mondo freddo e indifferente che non li accetta ma che, al contrario, li offende o cerca di far loro del male. Arturo corre loro in aiuto e i ragazzi lo abbracciano, riconoscenti. Egli e' diventato ormai la loro figura di riferimento. In alcuni casi addirittura l'unica. Arturo ha capito che il primo primo passo, necessario e obbligatorio, la conditio sine qua non, per un medico in generale e per un neuropsichiatra infantile in particolare, e' guadagnarsi la fiducia del paziente. Questo cerca quindi di fare con Pippi, dura e scontrosa all'inzio, per principio contraria alla figura del medico ("Perche' mi hai sorriso prima?" "Perche' non sembravi un medico"), chiusa in se stessa e convinta che Arturo sia il solito dottore che, come il granchio uca, succhia, si nutre dei dispiaceri degli altri, vive nel fango dei dolori e delle malattie e da questo trae il suo sostentamento e la sua forza. Ben presto, pero', anche Pippi si dovra' ricredere e l'ospedale diventera', proprio grazie alla presenza di un medico come Arturo, il suo rifugio, il luogo dove nascondersi da una famiglia che non la comprende e che sotto sotto lei non sente di amare veramente, il luogo dove trovare affetto e amicizia, un luogo sicuro e protettivo che la renda felice: "Sono contenta di essere in reparto", afferma ad un certo punto. Arturo, quindi, non e' un medico come tutti gli altri: non e' come quelli che preferiscono andare a lavorare nelle cliniche private dove "si guadagna il doppio e si lavora la meta'", e non e' nemmeno come quelli che non fanno altro che lamentarsi del ministro o del fatto che la busta paga sembri sempre essere inversamente proporzionale alla fatica fatta. A dire il vero non lo sa bene neanche Arturo in quale categoria di medico rientri: la cosa bella, pero', e' che, parlando con il padre di Pippi che lo accusa di non comportarsi tanto da psichiatra, dica: "Anche grazie a tua figlia io piano piano lo sto capendo". C'e' uno scambio a livello umano tra medico e paziente che all'improssivo si trovano ad essere sullo stesso piano: ognuno puo' offrire qualcosa all'altro. E' un rapporto equo e paritario, un rapporto all'interno del quale il paziente si sente a proprio agio. Certo, non e' detto che comportarsi come si comporta Arturo porti sempre e imprescindibilmente a delle conseguenze positive, alla diagnosi giusta: in questo caso egli ha fortuna, capisce il problema a monte delle crisi epilettiche di Pippi e riesce a guarirla. Non sempre andra' cosi', non sempre ci sara' il lieto fine, ma in ogni caso, seppure a seguito di un periodo di sconforto e di dubbi sulle proprie capacita', il medico avra' la consapevolezza di averci provato, di non essersi arreso. E lo capiranno anche, ci si augura, i pazienti e i loro familiari.  

 

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30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Vivian, la protagonista di questo film, e' affetta da un cancro dell'ovaio con metastasi al quarto stadio: un male incurabile, come sanno bene i suoi dottori e come, sotto sotto, anche lei sa. Un male che la portera' alla morte. Ciononostante, i medici la spingono a sottoporsi ad otto cicli di chemioterapia a dose piena, facendo affidamento sulla grande forza d'animo della paziente, ma mirando non alla sua guarigione, come gia' detto impossibile e impensabile, bensi' ad apportare un "significativo contributo alla conoscenza" e, non ultimo, ad ottenere una certa notorieta' nella comunita' scientifica. E' dunque la sete di conoscenza che muove i medici e che li spinge a non arrendersi neanche di fronte all'evidenza. Jason, lo specializzando ex studente di Vivian, lo ammette candidamente: "io preferisco la ricerca all'umanita'". E' inevitabile, dunque, che il paziente passi in secondo piano: egli (o ella, in questo caso) viene lasciato solo con i suoi dubbi e il suo dolore proprio nel momento di massima vulnerabilita'. Viene abbandonato in un mondo che non riesce a comprendere, costretto ad affrontare, senza difesa alcuna, il percorso della malattia che, nella migliore delle ipotesi, puo' essere considerato come una sfida, un qualcosa che ti mette alla prova, che ti tempra. Ma quanto puo' resistere un essere umano lasciato solo? Ben presto la malattia e la permanenza in ospedale si trasformano in qualcosa di doloroso, prima di tutto, ma anche di umiliante e degradante (si pensi alla visita pelvica cui Vivian, in evidente imbarazzo, si sottopone). E sembra che di tutto questo i medici non si rendano affatto conto. Come se davanti a loro non ci fosse piu' un essere umano, una persona capace di pensieri e sentimenti, ma un oggetto di ricerca. Non a caso Vivian, verso la fine, afferma di sentirsi "la provetta di un campione", non piu' dunque una persona: sente scivolarle di mano la propria dignita'. La malattia e' diventata la vera protagonista, le sue ovaie, la sua cavita' peritoneale, al massimo. Vivian viene osservata, studiata, scrutata, palpata, violata, in un certo qual senso, da mani estranee, da mani di persone che si disinteressano totalmente a lei come persona, che le rivolgono si' e no una domanda e un invito:

  1. come si sente oggi? 
  2. continui ad urinare

che suonano quasi canzonatori, offensivi, e che perdono tutto il loro significato nel momento in cui vengono ripetuti ogni volta, ogni giorno per pura formalita': non c'e' un vero interesse per la donna. E questo fa male. Vivian vorrebbe percepire il tocco di un'umana comprensione, lo cerca disperatamente: si sente sola, ha paura (e chi non l'avrebbe?), soffre, vorrebbe continuare ad essere la donna forte e sicura di se' che era prima, ma non ce la fa! Come fa a continuare a comportarsi allo stesso modo ora che e' pelata, senza piu' sopracciglia ne' scarpe, coperta a malapena da due sottospecie di camicie da notte? "Voglio solo nascondermi, raggomitolarmi qui", singhiozza, infilandosi completamente sotto le coperte. Avrebbe solo bisogno di un abbraccio, di qualche pur minimo segno di affetto, di comprensione, qualcuno che le dicesse: "non sei sola, Vivian, siamo qui, ti aiuteremo". Non a caso, quando ormai il dolore e' diventato insopportabile, indescrivibile, Vivian quasi prega l'infermiera, l'unica che si sia sinceramente interessata a lei: "Susie, continuerai tu a prenderti cura di me?". E qui appare evidente la differenza tra curare prendersi cura: i medici, i grandi ricercatori, la curano, si', ma non si prendono affatto cura di lei. E Vivian lo sente, se ne accorge e ne soffre. Al dolore puramente fisico, quindi, si aggiunge questo senso di abbandono, difficile da accettare quando si e' sani e forti, figuriamoci quando si sta sdraiati su un lettino d'ospedale, dal quale ci si alza solo per fare gli esami e per vomitare. A tutto cio' si aggiunga il fatto che Vivian non riesce a capire: "E' la cura (non la malattia) che mette in pericolo la mia vita. E' un paradosso". Quando era ancora una stimata professoressa universitaria, ci confessa, spiegava ai suoi studenti i paradossi tanto amati da John Donne come un puzzle da risolvere, un gioco intellettuale. Ma questo non e' un gioco: qui c'e' in gioco la vita. E nessuno lo sa e lo capisce meglio di lei, confusa e abbandonata, trasformata in un paziente-oggetto ("e' della ricerca", grida Jason mentre cerca di rianimarla), in una cavia, sola e ignorata.

Quando una malattia colpisce e provoca sofferenza si va dal medico per farsi curare, per farsi guarire, per farsi salvare. Ma quando e' il medico a fare del male, che si fa?

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Da questo film la figura del medico esce notevolmente abbattuta. Non e' piu' una persona capace di umana comprensione: e' solo ed esclusivamente un medico, votato alla sua missione, ma che, al tempo stesso, ha perso di vista l'obiettivo. L'obiettivo e', o quantomeno dovrebbe essere, far stare meglio il paziente, rispettare la sua dignita', la sua persona, il suo corpo. Succede invece tutto il contrario e, come afferma l'infermiera Susie: "un medico non si arrende mai. Non importa se sei attaccato ad una macchina". Lo scopo e' diventato il progresso della scienza. E' inevitabile, dunque, che i medici appaiano presuntuosi e pieni di se', trincerati dietro i loro numeri e i loro paroloni, al punto che la sola difesa per il paziente finisce per essere l'imparare il loro vocabolario, i termini tecnici, cosi' freddi, impersonali e "molto meno evocativi". Paradossalmente, quindi, il paziente, colui, cioe', che si trova nella condizione piu' sfavorevole e svantaggiata, deve fare l'ennesimo sforzo, deve, LUI, andare incontro ai medici, quando, a rigor di logica, dovrebbe essere l'esatto opposto. "E' tempo di semplicita'", dice Vivian, ma pare che i medici non riescano proprio ad afferrare questo concetto cosi' evidente e basilare. Il fatto e' che il medico non si rende conto di cosa si provi a stare dall'altra parte (a meno che non gli capiti quello che succede a Jack McKee in "un medico un uomo"), ma, fatto ancora piu' grave, neanche ci prova! Non si sforza minimamente di mettersi nei panni del paziente e, quindi, agisce di conseguenza, come se stesse lavorando su di un manichino, realistico e capace di risposte, ma pur sempre un freddo manichino di plastica. Peccato che non sia cosi'. In questo film i medici non si fermano mai a fare quattro chiacchiere con il paziente, cosi', giusto per informarsi, sinceramente, sul suo stato psicologico e non solo su quello fisico.  L'unica volta che vediamo lo specializzando Jason fermarsi al letto della paziente e' per parlare di se', di quanto gli piaccia la propria professione di ricercatore, di quanto poco apprezzi la clinica ("tempo perso per i ricercatori"), dei suoi sogni e delle sue ambizioni. Se solo mettesse la stessa passione nei rapporti interpersonali... Capisco che il tempo per i medici non sia mai abbastanza, che finito con un paziente si debba subito passare al successivo, ma non penso costituirebbe un grande impedimento il dimostrare un minimo di affetto e comprensione o l'essere gentili o anche solo civili con il prossimo, in evidente difficolta'.     

 

Ovviamente e' bene tenere presente, in questo film come nei precedenti, che non tutti i medici si comportano in questo modo. Si tratta, evidentemente, di una provocazione, volta a far riflettere noi aspiranti medici prima di tutto, affinche', in un futuro non troppo lontano, non commettiamo gli stessi, possibili, comuni errori.  

 

 

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22 Marzo 2011: MEDICI PER LA VITA di Joseph Sargent, USA 2004, 110'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Questo e' sostanzialmente un film sulla PASSIONE per la medicina, un sentimento che dovrebbe essere alla base di chiunque inizi questo corso di studi, lo abbia gia' intrapreso o stia gia' esercitando la professione. La storia di Vivien Thomas (storia vera, tra l'altro) mi ha davvero colpito: un ex falegname di colore, povero e socialmente disagiato, assunto come assistente da un grande e importante dottore bianco, riesce a mettere a frutto la sua intelligenza e le sue abilita'. Non solo, anzi, riesce a metterle a frutto, ma le mette al servizio della comunita', aiutando il suo datore di lavoro a trovare una innovativa tecnica chirurgica per cardiaca per operare i bambini affetti dalla tetralogia di Fallot, una malformazione cardiaca congenita anche nota come "morbo blu". Altro tema portante del film e' quindi il razzismo, o meglio la lotta al razzismo: infatti, quando al dottor Alfred Blalock viene meritatamente consegnato il premio Nobel per la grande innovazione che ha contribuito a portare nella medicina, il povero Vivien non viene neanche menzionato, sebbene proprio lui avesse inventato uno strumento chirurgico fondamentale per le suddette operazioni. In seguito, pero', fu insignito, caso piu' unico che raro, della laurea honoris causa in medicina. Un dovuto riconoscimento, seppure tardivo, del suo impegno e, soprattutto, come si diceva prima, della sua encomiabile passione per la Medicina, quella con M maiuscola, quella che aiuta gli altri, che salva vite o che comunque contribuisce a renderle migliori.

 

 

5 Aprile 2011: L'OLIO DI LORENZO di George Miller, USA 1993, 129'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Questo film, tratto da una storia seria, narra la drammatica esperienza di due genitori che scoprono che il figlio di soli cinque anni e' affetto da una rara quanto grave malattia genetica dei perosissomi, l'adrenoleucodistrofia, per la quale non esistono cure e che lo portera' sicuramente alla morte. Pur essendo privi di conoscenze mediche, i due, l'uno economista, l'altra glottologa, non si danno per vinti, nonostante siano frequenti comprensibili momenti di sconforto, e si impegnano strenuamente per trovare una cura per il figlio o comunque una soluzione, seppur temporanea, che renda meno drammatici i sintomi della malattia. Questa "cura" viene trovata appunto con l'olio di Lorenzo, un mix di acido oleico e olio di colza. Questo film si incentra quindi sulla straordinaria forza e sul coraggio degli eccezionali genitori di Lorenzo Odone, i quali non si sono risparmiati nella loro lotta contro il tempo e contro la classe medica al fine di salvare la vita del figlio. L'odio, o comunque l'astio, dei coniugi Odone nei confronti dei medici e' piuttosto evidente e, volendo, persino comprensibile: il loro scetticismo nei confronti della soluzione trovata dai due genitori e persino dei loro stessi tentativi di certo non li ha aiutati, tutt'altro. Inoltre, molto probabilmente, se tutti i medici interpellati si fossero organizzati meglio e avessero iniziato a lavorare insieme fin da subito il piccolo Lorenzo sarebbe migliorato prima e piu' in fretta, evitandosi cosi' le conseguenze piu' spiacevoli della sua terribile malattia. I veri portatori dei valori morali migliori e piu' sinceri quindi sono, in questo film, altri personaggi: non certo i medici, ahime'. Mi viene da pensare in particolare a Lorenzo stesso e alla sua instancabile voglia di vivere, pur costretto com'e' in un corpo che non gli risponde, tra sofferenze atroci; ai genitori, cosi' "innamorati" del figlio da studiare e informarsi e sperimentare a volte anche sulla propria pelle, motivati come sarebbe bene che fossero anche i medici; a Omouri, l'amico di Lorenzo, che mostra una dedizione e una generosita' encomiabili, al punto da sostituirsi ad un certo punto alle infermiere di professione. Un film dunque davvero bello e profondo, che fa prima commuovere e poi riflettere a lungo su quanto sia fondamentale per un medico la passione e la motivazione, il non arrendersi mai (o quasi mai) anche quando la situazione sembra davvero disperata. Perche' la speranza e' sempre quella a cui i pazienti e i parenti dei pazienti si attaccano di piu' e non e' giusto sottrargliela solo perche' non si condividono le loro idee.     

     

19 Aprile 2011: PATCH ADAMS di Tom Shadyac, USA 1998, 115'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Be', che dire? Film spettacolare: commovente e profondo. Tutti conosciamo la storia: Hunter Adams, detto "Patch", dopo aver tentato il suicidio e essersi ricoverato in una clinica psichiatrica si iscrive alla facolta' di Medicina ma i suoi atteggiamenti anticonformisti e le sue idee rivoluzionarie gli causano non pochi conflitti con i professori e gli altri studenti. Con l'aiuto di due suoi amici, Truman e Carin (studenti di Medicina come lui), apre una clinica gratuita in un cottage dove chi vuole e se la sente puo' dare una mano a chi ha bisogno di aiuto, fisico o psicologico. Carin, cui nel frattempo Hunter Adams si e' molto affezionato, viene uccisa da un paziente disturbato mentalmente. Patch e' sconvolto e viene assalito da molti dubbi al punto da desiderare di lasciar perdere tutto e tentare nuovamente il suicidio. Poi, per fortuna, si rende conto che questa non sarebbe la soluzione e decide di portare avanti il sogno suo e di Carin. A questo punto pero' Patch rischia la bocciatura e deve presentarsi davanti alla Commissione Medica e difendere il suo operato. La Commissione lo assolve e Patch puo' laurearsi e diventare ufficialmente un medico.  Quest'ultima scena in particolare, quella di Patch che si difende davanti alla Commissione Medica, e' cosi' meravigliosa da meritare qualche parola in piu'. Molti sono i punti interessanti e degni di nota, ma in questa sede mi riservo di affrontarne "solo" tre:

 

  1. cosa significa essere medico? : "[...] aprire la porta a chi ha bisogno, a chi e' sofferente, accudirlo, ascoltarlo, mettergli un panno freddo in fronte finche' la febbre si abbassa". Ancora una volta eccola qui la differenza tra "curare" e "prendersi cura". Qui Patch mette in evidenza un fatto molto importante: la priorita' dell'umanita', dei sentimenti di umana compassione e simpatia (nel senso etimologico del termine), rispetto alla preparazione puramente scolastica e, come dira' poco dopo, ai voti. 
  2. "Cos'ha la morte che non va?". Questo punto mi sembra particolarmente interessante soprattutto se facciamo riferimento ad un intervento tenuto dal Professor De Gaudio quest'anno nel corso di un'ADE. Negli ultimi tempi, con il progredire della ricerca scientifica e con le varie scoperte sempre piu' sensazionali che si accavallano, l'uomo (non solo il medico ma anche l'uomo comune) ha iniziato a illudersi di poter vivere per sempre. La morte e' ormai vista come qualcosa da evitare ad ogni costo, un mostro da sconfiggere, contro cui si deve combattere costantemente, senza mai arrendersi. Ma, davvero, cosa c'e' di sbagliato nella morte? E' tanto naturale quanto la vita. Dolorosa, certo, e ognuno di noi si augura che quel giorno arrivi il piu' tardi possibile, sia per se stessi che per i propri cari. Ma quando arriva va accettata e affrontata "con un po' di umanita' e dignita' e decenza e, Dio non voglia, persino di umorismo" perche' "Signori, il vero nemico non e' la morte". 
  3. "La missione di un medico non deve essere solo prevenire la more ma anche migliorare la qualita' della vita. Ecco perche' se si cura una malattia si vince o si perde. Se si cura una persona vi garantisco che in quel caso si vince, qualunque esito abbia la terapia". Wow. Quale poeta sarebbe riuscito ad esprimere un concetto cosi' complicato in parole piu' chiare e semplici? Questa frase mi fa pensare alle "cure di fine vita": nel momento in cui la morte sta "vincendo" l'unica cosa da fare e' cercare di rendere un momento cosi' traumatico e difficile per qualsiasi uomo il meno doloroso possibile. Ecco allora le cure palliative.  Vero segno di umanita' nel suo significato piu' bello e piu' ampio. 

 

Dall'intero discorso di Patch, comunque, traspare una tale passione, un tale amore per la professione medica, che le lacrime di commozione sono quasi d'obbligo. Un discorso cosi' ispirato non puo' che offrire innumerevoli spunti di riflessione a degli aspiranti medici come noi, come Patch, ragion per cui non poteva assolutamente mancare qui! :)