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Scoccimarro Erika

Page history last edited by erika 13 years ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Sicuramente sono molte le riflessioni che può suscitare questo film, ma credo che il tema più evidente sia quello della comunicazione, intesa come la necessità di saper ascoltare chi ci sta di fronte; un argomento, questo, che non rientra solo in campo medico.

Io credo che spendere del tempo a cercare di ascoltare l'altro, in generale, senza bisogno di entrare nel rapporto medico-paziente, sia un modo di capire maggiormente un problema e dare un appoggio reale anche alla persona;.

Quando ci si trova a dover esprimere qualcosa che ci riguarda da vicino, che non sia semplicemente come abbiamo passato la giornata, credo che tutti ci sentiamo in qualche modo più fragili e ci è più difficile aprici a chi ci ascolta.

Alla luce di questa considerazione, quindi, io ritengo che in una conversazione il ruolo principale lo abbia proprio l'ascoltatore, che ha il compito di dare sicurezza allì'interessato e di farlo sentire libero di dire e parlare senza sentirsi in una posizione inferiore o in qualche modo giudicato.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Le riflessioni che ho espresso sopra si possono, e, secondo il mio punto di vista, si devono applicare anche alla professione medica.

Anzi, forse si devono applicare maggiormente a questa professione. Notoriamente andare dal medico è qualcosa che in un certo senso spaventa, per cui è facile trovarsi, se non in una sorta di inferiorità, con una sensazione di disagio (anche assolutamente involontaria).

Quindi, trovarsi davanti una persona disponibile, che sia in grado di metterti a tuo agio e di farti capire che si interessa davvero a quello che stai dicendo, che, cioè, ti sta ascoltando, credo sia un modo per far aprire di più le persone. Nel film, infatti, Moretti, di tutti i medici da cui si è fatto visitare, non a caso torna solo nel centro di medicina cinese, perchè  "sono tutti gentili" e "l'atmosfera è simpatica".

Eppure anche i medici cinesi, ad una prima diagnosi avevano sbagliato, eppure Moretti torna ugualmente in quel centro. Evidentemente il modo in cui è stato trattato gli dà una fiducia maggiore in quel luogo.

Non è, quindi, l'errore medico quello che viene messo sotto accusa: è il modo in cui questo errore viene commesso.

Tutti gli altri medici, anche il Principe, di cui tutti così bene parlano, non sono stati in grado di ascoltare il loro paziente. Avevano già la risposta dal momento in cui è entrato nel loro studio: i dermatologi pensano a problemi dermatologici, gli allergologi ad allergie. Nessuno si pone il problema di ascoltare i sintomi che Moretti tenta invano di comunicare, nessuno fa mai una vera diagnosi del problema, perchè nessuno conosce in realtà il vero malessere del paziente.

Dal mio punto di vista credo che questo sia un problema veramente serio per la medicina e iniziare a tenerlo presente sin da ora , forse potrà aiutarci nel futuro a starne alla larga (o almeno provarci), a non chiuderci nell'ambito della nostra specifica specializzazione. E, in tutto questo, per allargare i nostri orizzonti al di là della specializzazione, è necessario saper ascolare quello che ci viene detto, senza preconcetti, senza giudizi troppo affrettati. 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

Ho trovato un breve articolo che credo sia particolarmente inerente a questi argomenti e possa ulteriormete sviluppare questa riflessione: http://www.pnlinpratica.com/articoli-di-pnl/salute-e-benessere/152-la-comunicazione-medico-paziente.html 

 

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

La malattia è uno dei grandi temi che solitamente vengono ignorati; cosa che rende abbastanza facile capire l'iniziale incredulità che si prova di fronte ad una diagnosi e in cui si trova, infatti, anche il protagonista del film, seppur medico.

Non si riesce a pensare ad altro, è "un pensiero completamente totalizzante", come è venuto fuori nel corso della discussione. Eppure all'inizio si tende a negarlo, si tende a pensare, "no, non è vero, non può essere successo a me".

Ti sembra quasi di stare in un sogno, che tutto sia come più lento. Inizi a pensare che tutto quello che ti circonda sia ben poca cosa confrontato a quello che ti è successo, credi che gli altri non ti possano capire perchè solo tu sei in grado di sapere come ti senti. Nessuno può sapere come stai perchè non è agli altri a cui è stato "trovato qualcosa". Ti senti solo. E allora dall'incredulità iniziale passi alla rabbia.

Certo, ognuno ha il suo modo di affrontare quelle che vengono definite "brutte notizie", come possono essere un lutto o una malattia e, quindi di reagire. Tuttavia io credo che questi primi istanti siano, se non uguali, molto simili per tutti o molti. E, non a caso, anche nel film vengono riportati fedelmente.

Quello che, almeno a me, colpisce maggiormente è il modo di sentirsi del malato. Si tratta di una situazione particolare quella in cui si trova, una situazione in cui la maggioranza di quelli che lo circondano non solo non si sono mai trovati (certo la diagnosi non è semplice influenza!) ma su cui probabilmente non hanno mai ragionato.

Quindi, tu, malato, che vivi in un mondo al rallentatore, ti trovi circondato da persone che non hanno mai passato quello che tu stai passando e, allora, ti arrabbi.

E la rabbia non viene solo dal fatto di essere malato, di essere in qualche modo diverso - e diverso con un senso negativo-  ma anche dal fatto di sapere, anzi di credere, che nessuno sia in grado di ascoltarti, di compartire con te il dolore.

Un'altro sentimento molto forte, derivato in parte da questo senso di solitudine, è la sensazione di essere tagliato fuori dai progetti degli altri.Ad un certo punto il protagonista del film dirà: "Oggi mi sembra di essere tagliato fuori da tutti i discorsi".

Di conseguenza tutto questo provoca una chiusura verso il mondo esterno, anche verso le persone che ti erano più vicine, di cui ti fidavi maggiormente e che anche in quel momento sarebbero lì, pronte a darti una mano. Tendi, quindi, ad allontanare da te tutto e tutti; ma questo ti porta a vedere gli altri ancora più lontani, costruendo così un circolo vizioso che, se non ti risvegli e capisci che devi aprirti anche te al mondo per esserne capito, può portarti a restare solo davvero. E, più che le cose vanno avanti, chiedere aiuto, dire quell' "I need you" che alla fine il protagonista del film scrive sulla lavagnetta, diventa sempre più difficile.

Prima di ammettere di aver bisogno della moglie, infatti, il dottore ha passato l'incredulità, la rabbia, l'isolamento forzato perchè nessuno era in grado di capirlo e il suo cambiamento è stato possibile grazie all'amica, alla quale si è aperto perchè anche lei malata. La ragazza, affetta da un tumore al cervello inoperabile, infatti, rappresenta la persona forte che è stata in grado di ragionare sulla sua malattia, accettarla, se di accettazione si può parlare, e affrontarla.

Lei vive di ogni momento, di ogni istante perchè il tempo nel suo mondo, che da un momento all'altro si può spengere, è un valore fontamentale.

In una scena del film il protagonista sta portando l'amica a vedere uno spettacolo che ha perso, ma lei a metà strada ferma la macchina, quando stanno passando in mezzo a un deserto. Ci è stato chiesto perchè fa questo; la mia risposta è perchè lei ha capito che è importante il percorso più che la meta e per questo, lungo quel tratto che ancora le rimane da completare vuole sentire, vivere ogni istante.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Io credo fortemente che un medico, o futuro medico che sia, debba interrogarsi e ragionare su questi temi, su cosa significhi essere malato.

Ci troveremo a stretto contatto con la malattia, mi sembra impossibile, anzi, impossibile no, però mi suona quantomeno strano che ogni giorno andremo a curare qualcuno senza mai aver speso un attimo per pensare che cosa questo comporti.

La domanda, che nel mio caso è abbastanza retorica, è: si può veramente "entrare, riparare e uscire" tanto per riprendere un'altra citazione dal film, o dovremo essere qualcosa di più? Avremo dei rapporti con delle persone, gente che è come noi, per cui è difficile capire cosa sta accadendo loro come lo sarebbe per noi, possiamo davvero dimenticare il lato umano da una parte?

Certo, un malato, in linea di massima, tende a peggiorare la sua situazione, cosa che porta al senso di solitudine e all'isolamento di cui ho parlato, ma trovarsi di fronte qualcuno che ti dismostri di capire quello che stai passando io penso che sia non solo semplicemente utile, ma anche fondamentale.

Con questo non dico che il medico e il paziente debbano essere, per così dire, grandi amici, ma credo che si debba trovare il giusto equlibrio tra il distacco, che è necessario per svolgere la nostra professione, e l'umanità e la compassione (nel senso di sentire insieme) e, tra l'altro, mi ha fatto molto piacere sentire le stesse cose dette davanti a me da un chirurgo che, di sicuro, di medicina ne sa più di me.

Secondo me quello che si deve trarre dal film (e forse anche da questa iniziativa che è Cin@med) è imparare a ricordare che saremo pure medici, ma rimarremo sempre prima persone. 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

[...]gli sembrava che lo guardassero come uno che presto lascerà libero un posto, ora, improvvisamente, gli amici lo canzonavano per la sua apprensione, come se quella cosa spaventosa, orribile e inaudita che si sviluppava dentro di lui e lo succhiava senza tregua, trascinandolo chissà dove, fosse una simpatica occasione di scherzo. [...]

Venivano gli amici per la partita, si sedevano al tavolo. [...] Che altro si poteva desiderare? Allegria! Perfetto, era lo slam. E di colpo Ivan Il'ic avvertiva qel dolore divorante, quel solito gusto in bocca e gli sembrava una follia rallegrarsi per uno slam, data la sua condizione.

Guardava allora il suo partner che batteva sul tavolo la sua mano sanguigna e con cortese condiscendenza si tratteneva dall'afferrare le prese, spingendole verso Ivan Il'ic, per lasciargli il piacere di raccoglierle senza affaticarsi e senza dover allungare il braccio. "Ma cosa crede, che non ho più la forza di allungare il braccio?"[...]

Tutti vedevano che stava male e gli ripetevano: "Possiamo smettere, se siete stanco. Andate a riposare." A riposare? No, non era affatto stanco, voleva arrivare fino in fondo al rubber. Tutti erano cupi e silenziosi. Ivan Il'ic intuiva ch'era lui a diffondere quella tetraggine, ma non poteva dissiparla. Cenevano, ognuno tornava a casa propria ed egli restava solo con la coscienza che la sua vita era avvelenata, che avvelenava quella dgli altri e che questo veleno non diminuiva, ma impregnava sempre di più tutto il suo essere.

Con questa consapevolezza, cui si univano il dolore fisico e la paura, doveva coricarsi, senza per altro riuscire a dormire per gran parte della notte. E poi, al mattino, bisognava alzarsi, vestirsi, andare in tribunale, parlare, scrivere, e se non ci andava ra anche peggio, a casa, tutte quelle ore, di cui ognuna era un tormento. E doveva vivere così, sull'orlo della rovina, da solo, senza l'aiuto di un'altra persona che lo capisse e lo compatisse."

 

Questo spezzone è ripreso dal libro di Tolstoj "La morte di Ivan Il'ic", un libriccino che trovo molto interessante da leggere non solo perchè breve, ma anche perchè offre spunti per ragionare su tematiche importanti tra cui la malattia e il sentire del malato, il rapporto medico-paziente e il senso della vanità dei rimedi.


16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

"Ecco, e ora che dico?!"..Qusto è stato il primo pensiero dopo aver visto il film.

Poi, piano piano, qualcosa è venuto fuori. C'è una cosa in particolare che mi ha colpita, ed è stata una domanda che ha fatto il professore intervenuto dopo la visione del film: "Meglio  malati che pazzi. Perchè pensiamo alla pazzia in modo più negativo rispetto alla malattia?".

Io credo che in fondo la risposta sia un po' dentro a tutti noi, ma è difficile da tirar fuori. Penso che quell'afferazione, meglio malati che pazzi! in fondo appartenga un po' a tutti.

Ma perchè? Cosa ci spaventa a tal punto nella pazzia, tanto da preferirle la malattia? 

Forse abbiamo l'idea che la malattia viene; viene e basta. Non è colpa tua, non è colpa di nessuno; la malattia va compatita in chi ne è affettto...ma la pazzia? Forse nella nostra testa c'è il fatto che la pazzia sia piuttosto una colpa di qualcuno e, come tale, qualcosa di cui vergognarsi. Anche nel film c'è questa idea. La madre di Pippi pensa che sua figlia sia "sbagliata" perché lei ha fatto un matrimonio e delle scelte "sbagliate" nella sua vita.

Forse è il fatto che la malattia mentale ci pare un fatto personale, che deriva da un comportamento sbagliato, strano, non giusto.

Forse è che perdere la testa, la ragione, la capacità di pensare è la nostra paura più profonda e qualcuno non più in grado di fare questo correttamente fa sì che diventi qualcosa di non solo strano, ma anche di sbagliato agli occhi degli altri.

Anche nel pensiero comune c'è questa idea negativa; se già andare dal medico non è bello, dover andare dal neuropsichiatra non solo non è bello, ma è anche umiliante, quasi da nascondere come un terribile segreto, come qualcosa da sussurrare perchè non si sappia..

In realtà ancora non sono riuscita a trovare una risposta chiara a quella domanda, non sono riuscita ad analizzare e trovare la causa di tanta diffidenza..di tanta paura.

"Meglio malati che pazzi!"...Si...ma perchè?!

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Credo sia abbastanza difficile anche una riflessione sulla professione medica, perchè il film ci ha messo davanti ad un mondo che spesso ci è sconusciuto e che è molto lontano dalla realtà: e questo perchè il film racconta una disciplina agli inizi e per forza oggi le metodiche usate non sono le stesse e, quindi, non è lo stesso neanche il rapporto con i pazienti e il loro mondo.

Una cosa, tuttavia, credo sia importante notare; il fatto che, qualsiasi specializzazione prenderemo, dovremo sempre cercare di tenere sempre lontano quel senso di onnipotenza a cui, credo, un medico tende facilmente.

Nel film questo è rappresentato dal fatto che il protagonista tenta di curare una bambina con il suo metodo quando non era la neuropsichiatria il reparto giusto per lei. 

Ognuno ha il suo reparto, la sua specializzazioe appunto (altrimenti non si chiamerebbe tale!).

Tenere presente che siamo uomini, non dei. Non abbiamo incantesimi, formule magiche o una medicina universale che vada bene per tutto di cui disporre.

A questo proposito un'altra cosa mi rimarrà impressa di quelle che ha detto il professore, e cioè che, parafrasando più o meno le sue parole, lui ha cercato, per rispetto dei pazienti, di avere una profonda conoscenza della medicina, ma non ha mai intrapreso terapie fuori dal campo che lo riguardava.

Credo che sono parole che tutti noi dovremmo tenere a mente, sempre. 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

Ho trovato che il libro da cui è stato tratto il film è "Una concretissima utopia", ed in particolare "Il raccoglitore nella segale" .

Il libro raccoglie una serie di saggi, anche a sfondo politico, di Marco Lombardo Radice, neuropsichiara infantile scomparso prematuramente.

 

                                                

 

 

 


30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Trovo che questo sia un film abbastanza complicato da commentare, sia per la ricchezza dei temi trattati, sia per il modo in cui viene condotta questa "indagine" sugli ultimi otto mesi di vita di una paziente malata di cancro.

Il punto di vista, infatti, è quello di Vivian, la donna affetta dalla malattia, non è una paziente, per così dire, comune, ma una importante studiosa, una donna brillante, intelligente, che ha passato la vita ad analizzare e cercare di comprendere la complicata poesia piena di significato del poeta inglese John Donne.

Così come nella vita anche nella malattia Vivian tenta di analizzare al meglio quello che le sta accadendo.

Rimane pur sempre un'insegnante e una grandissima osservatrice con grandi capacità di analisi ed ha, quindi, il compito di raccontare quello che le sta avvenendo e riportarlo, così come fanno i poeti e gli uomini al cui studio ha dedicato la vita. E, forse, inizialmente è quello che le permette di affronatare la malattia; dando la decrizione precisa di quello che le avviene attorno sembra quasi che non sia lei ad essere malata, che stia raccontando la storia di qualcun'altro.

Ma non è semplice passare da studiosi ad "oggetto si studio", così come lei stessa si descrive, e guardare dall'esterno medici che la trattano solo come uno dei tanti casi, come una malattia non come una persona.

Inoltre, proprio per la sua grande forza intellettuale, i medici la spronano a reagire sempre con tutte le forze, ad avere sempre la "dose massima" nella terapia che segue. I medici, tuttavia, non guardano la persona, prendono solo un aspetto del suo carattere che fa loro comodo perchè quella che segue Vivian è una terapia sperimentale e la donna sta reageno in modo sorprendente al trattamento. I medici non vogliono perdere la loro grande occasione per la sperientazione e la ricerca, il "grande contributo per la scienza" e le pubblicazioni che ne potrebbero trarre, ma non guardano assolutamente alla persona che soffre ed è chiamata ad affrontare una malattia che non ha prospettive di guarigione. 

 

Particolarmente scioccante per me è stata la visita ginecologica che Vivian deve subire da un suo ex-studente.

Il giovane medico ripete continuamente "ok", in modo quasi ossessivo come se non sapesse che dire o come se cercasse un modo per incoraggiarsi. Ho trovato orribile questa parte perchè il nervosismo del medico rende, secondo me, la visita ancor più denigrante per Vivian, che già si trova ad essere in una condizione di inferiorità. Il tutto aggravato dal fatto che il medico mostra una totale mancanza di anche una minima dose di tatto, lasciando ad un certo punto la paziente da sola nella stanza, già pronta per la visita.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Difficile trovare qualche riflesione sulla professione medica che non cada nella retorica e nella scontatezza.

In questo film il rapporto medico-paziente è totalmente inesistente; l'unica figura di umanità è data dall'infermiera.

Il momento più umano di uno dei medici è l'uscita dalla stanza di Vivian a testa bassa, in silenzio dopo che le condizioni della donna si sono aggravate; per un momento viene davvero coinvolto in quello che sta accadendo alla sua ex professoressa e sembra non essere in grado di sopportarlo.

Altra cosa tremenda è il giro di visite, con giovani medici, ciechi davanti al paziente, che pur di far bella figura davanti al medico tralasciano le cose più ovvie e non osservano nemmeno la paziente che pure sta lora davanti.

 

Ora come ora io posso certo fare mille buoni propositi e magari, tra qualche anno, comportarmi esattamente come i medici di questo film. Io credo che l'importanza stia nel cercare di formarsi in testa la figura di medico che vorresti essere e cercare di rispettarla quando sarà il tuo momento; e, soprattutto ricordarsi che davanti a te c'è non solo un paziente, una malattia straordinaria, un tumore, una terapia sperimentale, ma pima di tutto c'è una persona, con le sue debolezze, con i suoi dubbi, con la sua storia.

Probabilmente la nuova sfida della medicina sarà il trovare il giusto equilibrio tra il distacco necessario allo svolgimento della professione , tra scienza, tecnica e nuove sperimentazioni e la vecchia arte di saper ascoltare. 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.) 

Mi piaceva allegare il testo della poesia che fa un po' da filo conduttore al film.

L'autore, John Donne era un poeta inglese vissuto tra il 1500 e il 1600 che scrisse poesia metafisica ma non solo.

Il sonetto che viene recitato dalla protagonista è contenuto in The Holy Sonnets, una raccolta di sonetti pubblicata postuma nel 1633.

La poesia tratta del passaggio dalla vita alla morte e simboleggia un po' gli ultimi mesi di vita della protagonista. Vivian, nonostante abbia dedicato la vita allo studio del poeta ed abbia con questo sonetto un legame affettivo particolare legato alla sua storia, lo capisce a fondo solo nel momento della morte e della malattia. La poesia accompagna la protagonista e la aiuta, nel momento in cui prende coscenza della propria morte, a trovare in lei stessa la forza per affrontare un prova così difficile ma in un certo senso anche liberatoria; quella che è la forza della mente del titolo (wit in lingua originale). 

 

 

Death be not proud, though some haue called thee
  Mighty and dreadfull, for thou art not soe.
  For those whome thou thinkst thou dost ouerthrowe
Dye not (poore Death) not yet canst thou kill me.
From rest and sleepe, which but thy pictures be,
  Much pleasure, then from thee much more must flowe  
   And soonest our best men with thee doe goe,
Rest of their bodyes, and Soules deliuery.
Th’art slaue to fate, Chaunce, Kings, and desperate men, 
  And dost with poyson, warre, and sickness dwell     
  And poppy and charmes can make vs sleepe as well
And easyer then thy stroke: why swell’st thou then?
  One short sleepe past, we liue eternally
  And Death shalbe no more, Death thou shalt dye. 

 

Morte, non essere orgogliosa, sebbene alcuni ti abbiano chiamato / Potente e terribile, perché tu non lo sei; / Poiché coloro che tu pensi di sconfiggere, /Non muoiono (povera morte) né tu mi puoi uccidere. /

Dal riposo e dal sonno che altro non sono che tue immagini, / Molto piacere si trae, e dunque da te un piacere molto maggiore si deve trarre / E più in fretta i nostri uomini migliori se ne vanno con te, / Riposo per le ossa e liberazione dell'anima.

Tu sei schiava del destino, del caso, di re, e di uomini disperati, / E convivi con il veleno, la guerra e la malattia / E il papavero, o gli incantesimi ci fanno dormire altrettanto / E meglio del tuo fendente; perché dunque ti gonfi? / Dopo un breve sonno, ci svegliamo per l'eternità / E la morte non esisterà più, Morte tu morirai.

Come aneddoto su John Donne posso dire che è l'autore della famosa frase Nessun uomo è un'isola, contenuta in una sua poesia, ripresa anche da Ernest Hemingway nel suo libro Per chi suona la campana.

 

Aggiungo anche alcuni link:

  • la scena dl film della visita ginecologica che ho descritto sopra:

http://www.youtube.com/embed/8sEAIfTp93w

  • un articolo recente sul tumore alle ovaie:

http://www3.lastampa.it/scienza/sezioni/news/articolo/lstp/391111/

  • sito dell'osservaione nazionale sulla salute della donna:  

http://www.ondaosservatorio.it/

 

 

 


22 marzo 2011: MEDICI PER LA VITA di Joseph Sanders, USA 2004, 110' 

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Sicuramente la discriminazione razziale è un tema centrale del film, tanto che la ricerca sperimentale compiuta da Vivien Thomas e Alfred Blalock passa quasi in secondo piano; tuttavia, una riflessione su razzismo e discriminazioni credo che sia troppo complessa da affrontare, ma posso affermare senza dubbio che ognuno dovrebbe essere valutato per quello che vale, credo, e dovrebbe poter vedere riconosciuti i propri meriti. 

Fare bene il proprio lavoro credo che sia un fatto fondamentle e penso che questa consapevolezza sia la base per costrure qualcosa ed andare avanti ed avere una reale soddisfazione per quello che si sta facendo; anche Vivien, nel film, continua a fare il tecnico di laboratorio nonostante non abbia mai ricevuto riconoscimenti ufficiali per il suo contributo alla ricerca. Tuttavia, credo che a volte sia difficile andare avanti quando il tuo lavoro non è ricompensato nella giusta misura. La soddisfazione personale per quello che si fa è importante, ma ogni tanto, una conferma che quella è la strada giusta e un supporto dall'esterno sono importanti.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Il campo della ricerca mi affascina molto, e questo già lo sapevo prima del film.

La sperimentazione, la voglia di superare gli ostacoli ed osare qualcosa a cui nessuno aveva pensato prima e sapere che hai contribuito alla conoscenza generale di un certo qualcosa credo che sia una grande soddisfazione.

Quello che mi ha colpito è, però, un aspetto che rimane marginale nel film. 

Blalock vede in Vivien Thomas enormi capacità che possono aiutarlo molto nella sua ricerca; per questo decide di tenerlo con sé e di insegnargli lui stesso; Vivien, a sua volta, trasmette agli altri le informazioni che ha acquisito e quelle che ha osservato con l'esperienza.

La necessità di insegnare amplia le nostre conoscenze e ci permette uno scambio di idee che altrimenti non credo possibile.

C'è bisogno che i medici, e non solo loro, imparino ad insegnare. Credo che dare una corretta formazione sia un obbligo di tutti. 

 

 

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Su questo sito (in inglese) ho trovato molte informazioni interessanti riguardo ai personaggi e alla vicenda raccontata dal film e molti spunti per approfondimenti:   http://www.medicalarchives.jhmi.edu/page1.htm

 

 


5 aprile 2011: L'OLIO DI LORENZO di George Miller, USA 1992, 135' 

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Non conoscevo la storia del film.

Penso che il fattore che più sorprende è la forza dei genitori, e del padre di Lorenzo in particolare.

La tenacia di Augusto Odone nel cercare di capire l'origine del male del figlio e la sua capacità di mantenere sempre un controllo e un ragionamente sulla ricerca che stava compiendo, la necessità di seguire una prassi e degli studi anche se ad essere malato era sua figlio credo che sia stupefacente. Certo, la laurea ad honorem in medicina credo certamente meritata.

In parte anche la madre contribuisce agli studi, ma non può scindere il suo essere genitore dall'essere medico, in un certo senso. Comunque sia credo che la forza per affrontare una situazione del genere sia comunque da ammirare.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

La prospettiva sui medici del film non è certo lusinghiera, ma, come è stato detto anche nella discussione, un film deve pur far leva sull'aspetto emotivo per poter funzionare.

Tuttavia, credo che ci sono stati film in cui la fugura del medico è stata descritta in modo molto più negativo tra quelli che abbiamo visto. 

D'altra parte, questa volta, la storia in sé spinge a "schierarsi" dalla parte dei genitori che trovano la cura per il figlio da soli, senza passare dal lungo periodo di analisi e di sperimentazioni che, invece, vorrebbero i medici.

Nel film si dice che questo comportamento è dovuto al fatto di voler mantenere a tutti i costi la posizione acquisita nel campo medico e non rischiare la reputazione con una terapia giudica improvvisata perché trovata da due semplici genitori e, quindi, non medici.

Io credo per prima cosa che non basti un film per giudicare l'atteggiamento dei medici, soprattutto perché é una storia realmente accaduta, che avrebbe bisogno quindi di un po' più di elementi per poter essere meglio inquadrata.

Credo, inoltre, che si debba tener presente che un medico non ha l'obbligo solo verso un paziente in particolare, ma verso tutti; inoltre, purtroppo, i tempi della ricerca sono lunghi, ma questo proprio perchè ci sia la sicurezza che quello che si acquisisce rimanga e non vada perso. Ddifficile che questo punto di vista si incontri facilmente con quello di due genitori di un bambino con una rara malattia ed un tempo limitato.

 

 

 

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Qualche informazione sull'adrenoleucodistrofia:

http://www.webalice.it/posta.ailu/adrenoleucodistrodfia.html

 

http://www.orpha.net/consor/cgi-bin/OC_Exp.php?Expert=43&lng=IT

 


19 aprile 2011: PATCH ADAMS di Tom Shadyac, USA 1998, 115'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Questo film non è che mi entusiasmi più di tanto; lo trovo un film molto commerciale, che gioca sul senso dell'umorismo esagerato e su un romanticismo di fondo che non apprezzo più di tanto; mi ha sempre dato l'idea che sia un film fatto più che altro per commuovere e, quindi, essere venduto.

Non è la semplice risata; Patch Adams non è un semplice medico che fa ridere e a cui piace aiutare il prossimo. Lo trovo banale e riduttivo come messaggio, per di più perchè si tratta di un uomo reale, non di un personaggio inventato.  

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Unire umanità e una profonda conoscenza della medicina. Questo è il "messaggio" che è stato tirato fuori dal film;  conoscere non perchè dovrò passare uno stupido esame con un professore il più delle volte lunatico, ma perchè io voglio sapere, voglio conoscere per me e per poter poi riutilizzare al meglio quello che ho appreso. 

Ho visto che unire le due cose assieme non è così banale; non è una scelta necessaria quella tra lo studio e un contatto umano, le cose si possono integrare perfettamente, anzi, secondo me si devono integrare.; entrambi sono fonte di sapere, certo due saperi diversi ma per me ugualmente importanti e necessari. Mi sembra una cosa così  semplice anche nella sua formulazione, quasi scontata e ovvia, che non posso credere che qualcuno si senta costretto a scegliere e anzi, si senta in dovere di criticare chi come lui ha scelto una via di apprendimento (e anche di vita) non semplicemente diversa, ma complementare rispetto allo studio classico sui libri.

 

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In questo video è Patch Adams stesso che in un'intervista parla del film:

 

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