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Salerno Jonathan

Page history last edited by jonathan salerno 12 years, 6 months ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Le immediate impressioni suscitate dalla visione dello spezzone di film di Moretti ruotano personalmente intorno a

due aspetti distinti ma comunque intimamente correlati della Medicina, così come essa tende a configurarsi attualmente: il profilarsi di una figura di medico il cui modus operandi appare improntato più alla cura del sintomo piuttosto che alla ricerca delle cause di una patologia da una parte, dall'altra l' impersonale  burocratismo del rapporto della medicina occidentale nei confronti del malato.

 

Per quanto riguarda la figura del medico-burocrate, che trascura, citando Cosmacini, la sua "vocazione antropologica", quella che ascolta IL malato- persona, in favore della sua "vocazione tecnologica", cioè quella tesa  a curare il più delle volte il sintomo_ il sintomo e non la malattia_ di UN paziente, risulta esemplare il fatto che il protagonista, benchè sia visitato da ben otto medici, specialisti, non riesca a trovare veramente mai l'origine del suo male, un insistente prurito ormai tarlo inseparabile della sua sfera quotidiana, ma sia piuttosto l'oggetto di speculazioni acritiche di luminari e "principi" che invece di collocare il sintomo in un quadro più generale che probabilmente avrebbe permesso loro di risalire all'eziologia della malattia- linfoma non  hodjin_ si limitano a identificare in modo non privo di superficiale scolasticità lo stress come causa, senza approfondire, senza curarsi davvero del malato, ma somministrando" molecole" nelle quali il protagonista, alla luce di un susseguirsi di insuccessi, ormai non può che nutrire diffidenza.

Ancora esemplare a mio parere, è stato il dialogo in particolare con uno dei medici specialisti la cui superficialità, la cui noncuranza, la cui freddezza è tale da non fargli rendere conto che il suo paziente, vistosi rifilare l'ennesima lista di inutilità biochimiche, esce dallo studio, abbandonando le sue tenui speranze, che forse per un momento aveva provato nei confronti di una figura di medico molto poco umano. Speranze che il protagonista sceglie di riversare sintomaticamente nella Medicina cinese, che si dimostra magari non più efficace ma sicuramente molto più "confortante", "accogliente".

 

 " Almeno lì erano gentili" confessa Moretti

 

Ma come si può interpretare tale fenomeno? Possibile che il medico di oggi tenda a profilarsi più come un burocrate scienziato acritico che si rivolge a un individuo svuotato della sua soggettività, piuttosto che come una persona che aiuta un' altra persona a stare meglio, essendo egli stesso la medicina per il paziente?

è davvero " colpa" del medico o almeno in parte il medico è vittima di trappole professionali che lo inducono ad un atteggiamento improntato alla autoreferenzialità- molto evidente nel film- privo di spirito critico?

Per comprendere questo aspetto cruciale, dovremmo calare il Medico nel suo contesto culturale, che vede un avanzamento continuo delle conoscenze in campo scientifico che se da un lato presentano l'innegabile vantaggio di migliorare le prospettive per i pazienti dall'altra tendono a ultraspecializzare, a dividere la conoscenza, perdendo tuttavia l'unitarietà, l' organicità delle varie discipline mediche. in questo contesto può risultare comprensibile come un medico che non venga in qualche modo istruito non solo a studiare miriadi di pagine sulle meraviglie del corpo umano ma anche a chiedersi il perchè delle cose, sarà quello stesso medico che non avendo una visione d'insieme limpida non trova il nesso di vari sintomi e difatto non fa una diagnosi, in senso etimologico, non conosce ( i segni di una malattia) attraverso ( i suoi sintomi)

Baldini a tal proposito parla di "passività teorica" del medico sottolineando il rischio che questi incontra  di diventare un' "appendice dello strumento tecnologico", strumento che rischia di provocare un progressivo declino della logica medica. Non solo. Questa Medicina fatta di specialismi , di dati matematici statistiche molecole tenderebbe a mettere tra parentesi la soggettività del malato: infondo se la risposta sta in un farmaco che cosa importa del vissuto del paziente? Ecco un esempio di trappola professionale indotta da un modo di pensare superficiale che porterà il medico senz'altro a non ottenere fiducia dal suo paziente, relegando questi in una situazione tutt' altro che piacevole tutt' altro che serena o ottimista, ma che inoltre, a mio parere , lascia trasparire un atteggiamento di fondo del medico stesso per nulla orientato alle riflessione critica; certo, perchè il mettersi empaticamente nei panni del paziente presuppone riflessione e tale riflessione dovrebbe portare a pensare che un sorriso o una stretta di mano o magari solo un tono gentile possono significare tanto per un paziente alle prese con la sua malattia; e ci si dovrà stupire se  quello stesso medico superficiale sarà anche quello che cura il sintomo e non coglie il generale.

Mi sembra opportuno, in conclusione, puntualizzare d'altro canto  l'inevitabilità della relazione tra progressivo sviluppo scientifico e perdita della centralità del paziente, Guerra a tal proposito parla della scomparsa della soggettività del paziente come " una sorta di effetto necessario dell'evoluzione del sapere e della tecnologia", ma è pur vero che basterebbe prendere coscenza di questa tendenza diffusa, in altre parole contrapporre a una superficiale autoreferenzialità una critica autoriflessività.

 

 

 

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

 

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

UN MEDICO UN UOMO

 

 “Entro, aggiusto,  me ne vado”

 

Questa è l'essenza del modus operandi di Jack McKee, stimato chirurgo quarantenne, convinto che sia il distacco la conditio sine qua non per un chirurgo abile.

Ora, non  c'è dubbio che un atteggiamento di distacco emotivo dal paziente , nel momento in cui questo si trova sotto i ferri, sia indispensabile nel riuscire a mantenere raziocinio e lucidità ( meglio una mano ferma che un sorriso) a mantenere in altre parole la situazione sotto controllo. Difatto non è l"'aggiusto" a sollevare particolari problematiche( anche se spia di una concezione del malato puramente biologica, pericolosa, tendente a mettere la soggettività tra parentesi), ma sono l'"entro" e il "me ne vado" a suscitare notevoli perplessità.

Infondo finchè un chirurgo è bravo ad "aggiustare", riesce a far recuperare al paziente il sommo bene , la salute, apparentemente non  dovrebbe interessare cosa lo stesso chirurgo fa prima o dopo l'operazione.

Eppure, provando ad ampliare il nostro sguardo, a quello stesso chirurgo dovrebbe importare se il medesimo paziente, operato con magistrale abilità , dopo l'intervento è in preda a paure , dolori , angosce che lo dilaniano. Perdere una mano un braccio un organo o parte di esso non può lasciare indenni, imperturbati: come evidenziano Tedeschi e Saviano "l'asportazione di organi o parti corporee può determinare  una perturbazione [ neuropsicologica tale per cui] la privazione di una parte anatomica con conseguente lesione della sua rappresentazione psichica comporta la ricostruzione di un inconsueto schema corporeo dove  una nuova o diversa struttura deve vicariare le funzioni della parte asportata". In altri termini, sottolinea Guex,  "la perdita di un organo può scatenare una reazione depressiva che è strettamente correlata al significato simbolico che tale organo aveva assunto per il paziente creando una situazione di scissione tra l'aspetto che il suo corpo ha ormai concretamente assunto a causa dell'intervento e l'immagine corporea che egli continua ad avere in mente".

Sembra davvero lampante come il periodo successivo all'intervento, e non meno quello immediatamente precedente siano carichi di una componente emotiva non assolutamente trascurabile.

 

 

 

Ma al di là delle belle parole, concretamente, come può un chirurgo affacciarsi in questa sfera così delicata? E altrettanto concretamente, considerando il raggiungimento della salute come inequivocabile scopo ultimo dell'intervento,e non addentrandoci sulla problematica del concetto biologico o critico-umano di malattia, in ogni caso, può avere dei risvolti questa capacità di contatto umano utili ai fini della salute? Sembra di sì.

 

In uno studio condotto da  Egbert e Hayward , "quei soggetti che non hanno ricevuto sufficienti informazioni prima dell'intervento a proposito delle tecniche chirurgiche ed anestesiologiche che sarebbero state adottate, nonché delle sensazioni che essi avrebbero potuto trovare dopo l'intervento, presentano in genere un decorso post-operatorio più lungo e complicato; i pazienti che hanno avuto più adeguati e precisi ragguagli provano meno ansia, meno dolore e fanno meno uso di analgesici".

Analogamente, Boore rivela che" i pazienti adeguatamente preparati ed informati presentano addirittura una minor incidenza di infezioni post-operatorie e livelli significativamente più bassi di catecolamine urinarie o di altri indici di stress psicologico o fisiologico".

Un diverso caso in cui entrano comunque in gioco la psiche del paziente e la capacita di penetrazione psicologica del chirurgo, è quello della chirurgia estetica: saper cogliere il sottile discrimine tra un paziente che si vuole operare per  e su quello che essi si aspettano dall' intervento correttivoun puro capriccio estetico, che magari cela in sé problemi di ordine psicologico, e la persona che davvero necessita di quel determinato intervento; certi pazienti( Edgerton et al.) si possono presentare con "richieste di chirurgia estetica che si rivelano, nel corso dell'anamensi, legate a idee grandiose e a delire sull'origine della loro deformità  su quello che essi si aspettano dall' intervento correttivo".

 

Appare evidente, sulla base di questi e moltri altri studi paragonabili, che il chirurgo abbia in sé  certamente la capacità  di incidere tessuti, ma , che lo sappia o no, anche quella di incidere sulla psiche. E non si tratta sicuramente di sostituire o anteporre questa capacità di penetrazione psicologica al saper fare, si tratta di farle compenetrare per farne magari non un chirurgo migliore, ma sicuramente più completo. 

 

 

 

 

 

 

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16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

 

Di questi tempi si sente spesso parlare di “spersonalizzazione” del rapporto tra medico e paziente, di mancato rapporto di fiducia tra questi, di atteggiamento eccessivamente riduzionistico da parte di tale categoria di scienziati che tendono a inquadrare il malato sempre meno come “insieme di pezzi” ma appunto riducedoli all' organo o al tessuto malfunzionante, a danno di una prospettiva olistica, quindi di una visione d'insieme che tenga conto anche del lato umano del paziente.

A mio parere il film grande cocomero si inserisce in questo contesto delineando almeno due aspetti di fondamentale importanza relativa al progressivo cambiamento della figura del medico: la sua presunta vocazione missionaria da una parte, il suo rapporto di fiducia col paziente dall'altro.

 

Medicina: mestiere o missione? Nel caso di "Arturo", rispettabile neuropsichiatra infantile di Roma, sembra davvero che l "aut-aut" si risolva a favore della seconda categoria, quella di una medicina come vocazione filantropica, che costituisce il filo rosso del rapporto tra il medico e la paziente, Valentina, detta Pippi, appena adolescente, affetta da saltuari attacchi di epilessia dalle origini non ben inquadrate.

Il rapporto che viene a instaurarsi fra i due è tuttaltro che statico ma al contrario ricco di evoluzioni, in particolare si passa da una evidente diffidenza iniziale, appena la ragazza capisce di avere a che fare con un medico ( emblematico lo sputo in faccia, che va oltre alla diffidenza, si tratta di disprezzo vero e proprio), ad una prima apertura, ad un rapporto di fiducia vero e proprio che il medico riesce a instaurare in una prospetttva priva di qualsiasi scopo all'infuori del benessere di Pippi. Ecco dunque il disinteresse, o meglio l'interesse nel disinteresse, poiché Radice si pone proprio inter  sé e Pippi, non  al di sopra, in modo orizzontale dunque , allo stesso tempo senza pretendere  nessun tornaconto personale; tale atteggiamento lo porta ad avere una facoltà purtroppo non così diffusa: la capacità di ascolto.

Ritornando al punto iniziale ovvero se e come la medicina di oggi si configuri come una medicina o piuttosto una missione umanitaria in stile dottor Manson ( La Cittadella, Cronin), possiamo affermare che il caso del personaggio interpretato da Castellitto rappresenti, se non una mosca bianca, comunque una sparuta minoranza; d'altrocanto non si può pretendere che il medico di oggi possa dedicare tanta energia e interesse verso una sola persona, fermorestando che il contrario, ovvero la superficialità e la spersonalizzazione costituisce un limite gravissimo della medicina di oggi, tanto che “medico vero non può essere chi non sente imperioso nel cuore l'amore per gli uomini osservava l'insigne  clinico Augusto Murri.

Tuttavia, in medio stat virtus: come sottolinea Cosmacini, “ferma restando l'esigenza umanitaria è chiaro che la professionalità del medico è fatta anche di altro e che un forte impegno intellettuale è importante non meno dei buoni sentimenti”.

Considerando la questione da un altro punto di vista , si dovrebbe essere in definitiva tanto bravi da diventare competentissimi uomini di scienza ma allo stesso tempo non cadere nella più o meno facile tentazione( dipenderà dalla soggettività del medico) di considerare la medicina una scienza esatta e i malati malattie, oggettivamente classificabili, statistiche da redigere. 

 

Non dobbiamo tuttavia tralasciare un altro concetto di fondamentale importanza che emerge dal film dell' Archibugi: un rapporto genitori medico figlio/ paziente davvero singolare. Come emerge in svariate situazioni, non ultimi i colloqui con i genitori e la ragazza, ( alquanto significativi gli occhi della ragazza quasi sempre rivolti in basso, quasi in segno di rassegnata amarezza)  è evidente come la parentela di sangue tra Pippi e i genitori non vada oltre il lato burocratico, mentre col dottor Arturo si instaura una sorta di parentela emotiva, come testimoniano gli occhi della ragazza che nei vari colloqui faccia a faccia con lo psichiatra appaiono vivi, presenti, talvota sembrano quasi sfidare il dottore stesso. E' come se il medico fosse davvero fonte di fiducia per la ragazza ormai naufraga in quel mare magnum di vuoto affettivo così grave da essere alla base della sua patologia, frutto di un rapporto fondato sull'incomprensione con la famiglia che “ presenta una dinamica disturbatissima”, afferma una dottoressa.

Assistiamo quindi a un insolito  ribaltamento degli schemi: il medico che va a colmare il vuoto emotivo della sua paziente, il medico capace di un amore paterno, non paternalista, che prende a cuore la situazione di Pippi, il medico che offre in modo del tutto disinteressato( ecco il senso profondo di missione) ascolto riuscendo con molto labor limae a sviscerare in un grande sforzo maieutico i reconditi perchè della sua afasia emozionale,riuscendo a identificare la patologia della adolescente  in un epilessia “per protesta” e quindi dai forti connotati eziopatologici emotivi.

 

In conclusione, il dottor Radice ci offre un modello di quello che forse dovrebbe essere il traguardo magari anche asintotico del Medico, un uomo di scienza è vero, ma appunto anche un uomo tra gli uomini, non un saggio stregone a cui tutti danno ascolto all' insegna dell' ipse dixit, ma un uomo che si ricordi che le scienze non sono solo tecnologiche, ma anche umane.

 

 

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30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

La forza della mente

 

Quella a cui assistiamo è la storia di Vivian Bearing, insigne professoressa di letteratura inglese alla quale viene diagnosticato un tumore in avanzatissimo stadio metastatico. La reazione almeno inizialmente, pur non lasciandola comprensibilmente emotivamente immutata, non la turba in modo particolare, si ha in particolare la sensazione che giudichi la malattia in maniera distaccata quasi non la riguardasse direttamente; solo dopo aver intrapreso l'nsperabile numero di ben otto cicli di chemioterapia a piena dose comincia il suo inesorabile declino interiore: crollano le sue certezze, comincia a trovare futili le ricorrenti disquisizioni relative alla tanto amata poesia metafisica del poeta John Donne , ma soprattutto ora “desidera semplicità”, comincia a capire il valore del contatto umano dalla quale è sempre rifuggita, quel contatto dalla quale spesso si è tenuta lontano barricandosi dietro una fredda muraglia di misantropico cinismo.

Puntando ora l'attenzione sulle personalità mediche che partecipano alla vicenda della donna, ciò che si profila è un evidente mancato contatto con la paziente, la quale si sente una provetta come egli stessa confesserà in tono amaramente rassegnato, eccezion fatta per la prodiga infermiera la cui umanità risulta a tratti scintillare nella fredda penombra in cui viene relegata dal clinico Kelekian, e in particolare da uno dei giovani medici al suo seguito, Jason, peraltro ex studente della professoressa stessa.

Volendo riassumenre in pochi flash la summa delle modalità con cui si declina tale rapporto medico paziente, possiamo affermare che varia da un atteggiamento di distacco totale dalla illness della paziente, a convenevoli squalidamente artificiosi( il vecchio clinico che raccomanda a Jason le formalità prima di uscire dalla stanza), a una sorta di “accanimento didattico” da parte dell entourage del professore che tocca, palpa, tasta forse non del tutto consci di avere davanti una persona ancora viva e nel pieno possesso delle sue facoltà mentali.

 

Potremmo a questo punto riflettere su un concetto: Se e in che misura possiamo aspettarci che il medico sia vicino all emotività, alla illness del paziente?

D'altra parte se ammettiamo che lo scopo della medicina è la restitutio ad integrum del malato, allora la domanda sovraesposta può essere ricondotta al seguente quesito: può essere utile al paziente un rapporto col curante all' insegna della fiducia, della capacità di ascolto, ai fini della sua guarigione?

 

A questo proposito L. Sandlers, medico intenista alla facoltà di medicina americana di Yale, riporta vari sondaggi i quali dimostrano che “i medici spesso interrompono i pazienti prima che abbiano finito di raccontare tutta la storia, col risultato che oltre la metà dei pazienti intervistati dopo essere stati dal proprio medico presentavano sintomi che li preoccupavano ma che non avevano avuto la possibilità di descrivere […] o addirittura non concordavano sul principale sintomo accusato tra il venticinque e il settanta per cento delle volte”con il risultato che molto spesso si è clinicamente miopi, rischiando di andare a curare il sintomo e non la patologia a monte; tutto questo è tipico di un modello desease -centered, in cui il medico vede e cura la malattia, non il malato.

 

Si potrebbe obiettare che , dato che lo scopo ultimo è la guarigione, l' operatore sanitario potrebbe benissimo tralasciare l'aspetto psicologico della malattia, potrebbe benissimo non ascoltare. Eppure a smentire tale argomentazione è (uno fra tanti) uno studio americano condotto da Stewart M. et al., il quale fa emergere con chiarezza come la medicina narrativa, la NBM, la quale fa leva sulla capacità di ascolto e interpretazione, dia al soggetto la sensazione di aver raggiunto con il curante un terreno comune , concreto, comprensibile anche e soprattutto a chi non possiede nozioni mediche, in associazione con un “miglior recupero dal loro disagio e preoccupazione, una migliore salute emotiva, meno test diagnostici e minor numero di rinvii”.

Alla luce di questa e altre ricerche paragonabili potremmo cocludere senza troppi indugi che l'approccio olistico al paziente e quindi la patient-centered medicine coadiuva in modo sintomatico il medico ai fini della corretta diagnosi, nella misura in cui da una parte si rischia meno spesso di scambiare un effetto per una causa, dall'altra l'ascolto è sinonimo di fiducia, di maggiore tranquillità emotiva indispensabile nel processo di guarigione.

Tuttavia si apre un problema

 

qual è il confine tra medici e assistenti spirituali? C'è forse sovrapposizione di ruolo?

 

In altre parole che vuol dire in termini pratici avere un approccio fondato sulla NBM, e quindi, considerando l'altra faccia della medaglia, sulla patient-centered medicine? Proviamo prima a dare una definizione concreta di NBM: secondo la Charon, si basa su una “ medicina praticata con competenza narrativa che consiste nella capacità di assorbire, interpretare e rispondere alle storie e alle condizioni dei malati, lasciandosi coinvolgere da esse”; ebbene, è proprio queto termine, “coinvolgere”, che va pesato in modo molto cauto ed è proprio in questo termine insito il discrimine tra medico e assistente spirituale; come sostiene la pedagogista L. Zannini, “il coinvolgimento non va confuso con l'identificazione che è un processo molto pericoloso nella pratica clinica, ma consiste piuttosto in una conoscenza emotiva dell'altro, un fare spazio dentro di sé all'emozione dell'altro, senza che questo comporti alcun processo di identificazione”.

 

Come si attua allora un tipo di rapporto di questo tipo in termini concreti? In realtà la questione meriterebbe indispensabili approfondimenti, esempi di come uno stesso colloquio medico paziente possa essere sostenuto in modo desease centered e patient centerd, tuttavia per cogliere il punto principale del problema, deve essere chiaro nel modus operandi dell'operatore sanitario l'idea di far parlare il paziente: ovvero non interromperlo continuamente o non farlo parlare del tutto , presentare le proprie prescrizioni_forse violando il senso etimologico

del termine_ non tanto come ordini spesso incomprensibili, ma piuttosto premurandosi di spiegare anche peccando di semplicismo( tuttavia mai affermando il falso) il come e il perchè della terapia indicata, il cosa avverrebbe se non la seguisse in modalità opportune,utilizzando, sostiene L.Zannini, domande circolari, ovvero domande aperte che siano formulate in risposta a quanto detto dal paziente basandosi sulle sue parole, e che permettano di esplorare in modo più ampio e da diversi punti di vista l' esperienza dell'individuo.

In ultima analisi, si potrebbe pensare che tutto questo implichi un impiego di tempo inammissibile per il singolo, che ciò che si ricava siano delle informazioni inutili ai fini della diagnosi ; a tal proposito G. Bert sottolinea come nella sua esperienza di fautore della NBM, “la narrazione non duri più di due o tre minuti dopodichè in genere l'altro si arresta spontaneamente e resta in attesa, ma il materiale emerso è già molto abbondante e sufficiente a indirizzare i successivi interventi verso il mondo singolare e unico del paziente” .

 

Alla luce delle considerazioni esposte , possiamo affermare che la NBM, la medicina olistica, la patient centered medicine sono facce dela stessa medaglia, che non si tratta di sostituire la EBM con la NBM, semmai di integrarla, che un approccio medico-narrativo non toglie tempo se intrapreso in modo corretto, non consiste in una sorta di terapia psicologica, presenta delle definite modalità di attuazione e pertanto non è un concetto nobilmente aleatorio, ma realisticamente attuabile.

 

 

 

 

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22 Marzo 2011: MEDICI PER LA VITA di Joseph Sargent, USA 2004, 110'

 

 

Ci potremmo domandare:  provare l'estrema, innovativa, e non poco folle idea di collegare artificialmente vasi sanguigni , realizzando, vedendola in termini iatromeccanici , un ponte fra diverse strade, o piuttosto lasciare la bambina , ormai segnata, a se stessa?

 

Un dubbio paralizzante, per i più, risolto tuttavia  con singolare, ferma lucidità da parte del Dottor Blalock e il suo collaboratore Vivien Thomas, tale da  squarciare inevitabili veli di paura che avvolgevano  la pionieristica idea di scontrarsi contro i classici dictat della storia della medicina: uno scettico , cauto  noli tangere.

 

In effetti agire sul cuore e alcuni dei principali vasi che da questo si dipartono allora, negli anni '40, poteva sembrare fantascienza; eppure, grazie all'ingegno e all' abilità manuale dei due eminenti scienziati, e, doveroso sottolinearlo, della capacità del dottor Blalock di andare oltre i pregiudizi razziali propri di quel tempo, si è riusciti  a scardinare barriere concettuali che semplicemente  rispecchiavano l'impotenza tecnica da parte dell'uomo; d'altro canto  laddove l'uomo non arriva al dominio della  natura , sovente sopperisce con prescrizioni etiche specie in passato  custodite da aloni di religiosità. Poi arriva chi supera i limiti.

 

Ad ogni modo potremmo davvero chiederci se sia stato corretto l'agire di queste due grandi personalità: tuttavia, purtoppo in campo etico e quindi bioetico non abbiamo a che fare con verità assolute, valide per tutti, come nella scienza in base alle quali poi  dedurre regole, definire teoremi, descrivere leggi.

 

Esistono solo interpretazioni: in questo caso il prete da una parte, altri scienziati più conservatori dall altra, hanno interpretato il fatto l' uno come aberrante oltraggio divino, gli altri come follemente affrettato;  i genitori della bambina cianotica come l'ultima spiaggia, infine i due dottori, animati da un'ambiziosa curiosità e, certamente,  dalla volontà di salvare una vita umana, come un 'azione da intraprendere senza 

ulteriore indugio, senza  comunque essere forti di una grande esperienza.

 

Il punto è che non si può affermare se sia stato giusto o sbagliato, ma è lecito chiedersi se possa rientrare in quelle linee guida che  pur non pretendendo  di essere foriere  di verità,  servono comunque da regolatori dell'agire scientifico.  O piuttosto,   ci sono gli estremi per parlare di accanimento terapeutico e di comportamento poco deontologico? Infondo si trattava di applicare una manovra fino ad allora provata solo su cani, e non senza insuccessi; un'infinita sfilata di motivi si scontrava con quell 'operazione entrata nella storia. Personalmente,  anche se col senno di poi, credo che il gioco valesse la candela.

 

 

5 Aprile 2011: L'OLIO DI LORENZO di George Miller, USA 1993, 129'

 

 L'incontenibile desiderio di arrivare a svelare il “quid” di un" enigma biochimico", l'insostenibile peso del tempo che incede implacabile verso il completo declino psico fisico di un bambino, l'intoccabile prassi imposta dagli scienziati. Ecco i tre elementi del film che collidono violentemente tra loro dando vita alla toccante vicenda degli Odone.

 

Come potremmo definire la condotta dei due coniugi oltre che di Nikolais?

Un' eccessiva avventatezza da parte della famiglia o un' avvedutezza eccessiva da parte degli scienziati?

Possiamo accettere che l' impetuoso fluire della "passione "- qui davvero intesa in senso etimologico, di sofferenza, oltre che moderno, di vivo interesse_ dei due genitori abbia straripato dai precisi argini imposti dall'etica prassi di stimati luminari?

Fino a che punto è accettabile che la passione sconfini oltre l'etica? Come inquadrare la condotta del insigne biochimico Nikolais, pedante oculatezza o necessario modus operandi?

Lungi dallo scopo di questo scritto è stabilire dove stia la verità, stabilire chi ha ragione e chi torto; premesso ciò, sarebbe quantomeno opportuno cercare di capire se effettivamente le "barriere " ( se davvero di barriere si tratta)imposte dall'etica in campo scientifico, la cosiddetta bioetica , sia da considerare un limite al progresso della scienza o un argine necessario.

 

Nel caso specifico risulta evidente che se i genitori di lorenzo non avessero osato tuffandosi concretamente e assiduamene nella lettura di pathways metabolici e network di meccanismi molecolari, se non avessero rischiato , se avessere seguito la prassi imposta dal biochimico, non sarebbero mai arrivati alla soluzione dell'enigma, in tempo.

 

Eppure se per caso l'effetto del cocktail di olive e semi avesse avuto semplicemente un effetto apparentemente benefico, temporaneo,ma drasticamente aggravante a lungo termine, non solo il figlio ma anche molti altri bambini avrebbero condiviso una tale condizione magari illusi dall'apparente miglioramento.

 

A ragione possiamo capire lo sgomento, la paralisi mentale del biochimico e i suoi collaboratori quando davanti a una selva di anime agitate, spiazzate dalla notizia inattesa dell insperabile beneficio apportato dall' olio di

Lorenzo , non sa assolutamente cosa fare; consigliare l'olio a tutti, interrompere il protocollo e difatto, vanificare mesi di lavoro? e se poi si rivelasse un veleno piuttosto che un farmaco? un dilemma etico non di poco conto

 

Come sosteneva Machiavelli, l'esito di ogni azione umana dipende per metà dalla virtù e metà dalla sorte; in questo caso davvero non è mancato il coraggio e l'intraprendenza (sottese certo a un 'incalzante disperazione) e, in questa storia, la sorte ha sorriso agli Odone e a quantialtri hanno beneficiato di questa iniziale, magari non completa ma salvifica, terapia.

 

Allontanandoci dal caso specifico,tuttavia non è detto che il vento soffi sempre dalla parte giusta e in effetti pensare di poter fare a meno di linee guida etiche nel campo della ricerca potrebbe dar adito a disastrosi effetti; si pensi, senza fare nomi, agli innumerevoli promettenti farmaci che si sono dimostrati efficacissimi contro la malattia in sè ma i cui effetti collaterali sono così nefasti da rendere difatto controproducente l' uso di quel farmaco.

 

Ecco la necessità di regolamentare la ricerca la scienza da un punto di vista che è metascientifico,va oltre la scienza e diventa filosofia( tale rapporto,bioetica scienza filosofia meriterebbe un approfondimento a sè), un' etica che imponga dei limiti non volti a limitare la passione del ricercatore ma a vantaggio di egli stesso, per evitare di fargli commettere errori di disastrosa portata. In altre parole non quella che Fornero definisce una bioetica" gendarme", "vista come un' aprioristica teoria del lecito e dell'illecito", ma una tavola di valori universalmente condivisibili, oltre le posizioni politiche o religiose

 

Entrati in quest'ottica la vicenda Odone è inquadrabile come uno straripare di genialità che ha stravolto le più che giustificabili barriere etiche, apportando fortunatamente una sorta di “limo intellettuale”, ampliando cioè le conoscenze degli stessi scienziati e aprendo la strada a nuove efficaci terapie; ma non dimentichiamo che in altre circostanze l'olio di lorenzo avrebbe potuto rivelarsi non solo una grande falsa speranza , ma addirittura mortale per migliaia di bambini.

 

In conclusione, è stato sicuramente avventato il comportamento degli Odone, e certamente avveduto quello di Nikolais e del suo entourage; tuttavia, credo sia impossibile condannare l'uno o l'altro in quanto protocolli bioetici devono pur esserci e d'altrocanto, come non capire la drammaticità della condizione di due genitori che si trovano davanti a una prognosi infausta.

 

 

 

9 Aprile 2011: PATCH ADAMS di Universal, USA 1998, 115'

 

"Qual è la differenze tra il Medico e lo Scienziato? Il prossimo" Così sostiene con ammirevole enfasi, quasi superbo,   Patch Adams, rappresentato nei suoi primi anni di Facoltà di Medicina.

 In effetti volendo approfondire il rapporto tra queste due figure, potrebbero emergere interessanti riflessioni. Dunque, che rapporto c'è tra Scienza e Medicina?

 

Prima di tutto la Medicina è anche una Scienza; sarebbe fuorviante affermare il contrario e tuttavia non c'è una precisa sovrapposizione, in quento se è vero che è anche una scienza ,è una scienza non pura, tecnologica, a statuto particolare da una parte, antropologica, e non completamente oggettiva dall'altra.

 

Andiamo a  a chiarire questi termini.

 

La Medicina tende da sempre a configurarsi non come una scienza a sè stante, ma come una scienza che fa propri dati provenienti da altre discipline scientifiche per organizzarli in uno scire dinamico, complesso, articolato che certo, avrà come scopo ultimo la restitutio ad integrum del paziente. Come fa notare C. Bernard, " se si scorre il programma dei corsi della Facoltà di Medicina , si vede che non esiste una cattedra il cui insegnamento sia consacrato a un ' entità scientifica rispondente al termine astratto di   " medicina": qui si insegna l anatomia, da un'altra parte la fisiologia, da un'altra parte ancora la chimica, la fisica, l'anatomia patologica , la patologia e così via". Concetto quest' ultimo felicemente espresso dalla metafora dell"'albero della medicina" , caratterizzato da  un fitto groviglio di radici corrispondenti alle principali scienze basilari per un medico il tutto convergente ad un unico tronco comune, la patologia generale, che si risolve in un' altrettanto fitta alberatura coincidente con le varie branche della patologia d'organo. 

Possiamo allora affermare che la medicina  sia una scienza impura nella misura in cui non esiste in modo assoluto, astratto, ma si nutre, appunto come un tronco fa attraverso le proprie radici, dei risultati di altre discipline scientifiche. Ma è anche una scienza, e sempre più lo sta diventando, tecnologica, che si avvale cioè delle più moderne tecniche di indagine , con l'evidente rischio , fatto questo ampiamente condiviso nell'ambito medico, purtroppo  non ancora unanimemente , che ci sia un rovesciamento di ruoli tra medico e tecnologia, nel senso che, nota M. Baldini, il sapere medico diventi un' "appendice dello strumento tecnologico".

In definitiva , la medicina sia pure in modo singolare, si presenta come una scienza o meglio un melting pot di discipline scientifiche che si incontrano nell' unicità di pensiero( ecco profilarsi il concetto di medico artigiano) del professionista sanitario, e tuttavia, va anche oltre la scienza abbracciando il contatto umano.

Sostiene a tale proposito G. Cosmacini, "la medicina non  è una scienza assimilabile alle altre scienze prima di tutto perché il suo oggetto è un soggetto , l' uomo"; in secondo luogo perché non deve relazionarsi solamente a complicate interazioni molecolari( dalla cui conoscenza certo non può prescindere), ma anche e soprattutto a esseri umani, a malati , che per definizione, soffrono. Il che richiede al medico , scienziato come illustrato precedentemente sui generis, in conclusione,  "non solo risorse scientifiche , tecniche, ma anche antropologiche, umane".

 

 

 

 


 

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