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Ciarlitto Claudia

Page history last edited by Claudia Ciarlitto 11 years, 1 month ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

 

Ho trovato questo stralcio di film molto interessante, come al solito Nanni Moretti è capace di descrivere situazioni comuni, all’ordine del giorno, con una realismo disincantato e sarcastico che rende il film coinvolgente; mentre da una parte diventa quasi comica ed esasperata/esasperante la sua esperienza con questo enorme gruppo di medici specialisti, altezzosi, antipatici e alla fine anche incompetenti, dall’altra ci invita immancabilmente a riflettere su tante questioni legate alla professionalità. Ancora prima della gentilezza, del modo di fare disponibile e rispettoso, che comunque ritengo delle caratteristiche fondamentali dell’atteggiamento di chi vuole curare la gente, ho trovato sconvolgente l’incapacità dei medici di dare ascolto prima, e di spiegare poi quello che sta accadendo al malato. Dal momento che il medico dovrebbe essere competente di faccende che riguardano parti molto intime del paziente,dovrebbe essere in grado di affrontarle con lui, trattando la malattia come parte integrante dell’uomo che ha di fronte, ascoltando, analizzando e ovviamente spiegando e condividendo con lui le sue conclusioni e motivazioni. Cosa ben diversa dal trattare i sintomi con indifferenza e come massimo aiuto fornire una serie infinita e complicata di terapie, scritte rigorosamente su ricette illeggibili.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Non fornendo certo dei medici un immagine positiva, questo film ci invita a riflettere sull’importanza dei tratti più umani del rapporto tra il medico ed il paziente. Da parte mia, mi sembra assurdo credere che ci siano così tanti specialisti che lavorano in maniera superficiale e frammentata. Gli spunti di riflessione sono molti, dalla necessità di limitare la sensazione di disagio di chi ti sta di fronte e per giunta soffre, con attenzioni maggiori ai suoi sintomi e anche una buona dose di rispetto, a quella di risultare meno altezzosi e saputi, più disponibili a condividere il proprio sapere con gli altri, anche se meno “colti”, scendendo dal piedistallo che forse un medico si costruisce dopo tanti anni di studi. Il film mi ha fatto riflettere anche sull’importanza del confronto tra colleghi. Lo ritengo fondamentale, perché in un caso ovvio o molto strano la lettura di un altro medico può essere diversa, l’indagine più accurata, la diagnosi prevedere soluzioni diverse.

Su questo punto nel campo della medicina specialistica credo ci sia molto da lavorare, e toccherà a noi riflettere maggiormente sul fatto che, anche se un ottimo dottore, “nessun uomo è un isola”. 

 

 

 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

 

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Questo film, pur non essendo sicuramente un capolavoro cinematografico, descrive una storia peraltro vera che mi ha molto colpito sotto tanti aspetti. prima di tutto la freddezza e l’impersonalità con cui vengono trattati i pazienti in questi ospedali americani, una situazione che mi auguro stia mutando e che indubbiamente non deve essere lasciata alla discrezione del singolo individuo, prima solo un chirurgo, poi solo un malato, addirittura il “terminale”. In secondo luogo la trasformazione quasi romantica del protagonista, che dal chirurgo meccanico e freddo che era, diventa un sostenitore dell’attenzione verso il malato, verso il suo nome proprio e non solo la sua malattia, dopo aver vissuto l’esperienza dall’altro lato del letto. Ho apprezzato la duttilità del personaggio che alla fine cambia tutto il suo modo di agire e di pensare, dal momento in cui abbandona il suo alter-ego in gonnella per il medico più umano e gentile, anche se lo ritiene meno competente, che ha sempre deriso. Mi è piaciuta l’importanza che viene data ai rapporti umani in genere, soprattutto nel momento della malattia, che non deve essere una occasione per lasciare fuori gli altri a causa della sofferenza e della vulnerabilità che si avverte, ma anzi un “abbassare le braccia” e lasciare gli altri avvicinarsi a sé.

 

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

 La visione di questo film ha suscitato in me molte sensazioni positive, soprattutto la consapevolezza che c’è qualcosa che anche il medico può fare anche laddove le competenze scientifiche non bastano, e la freddezza dell’ambiente ospedaliero unito alla vera e propria sensazione di abbandono che qui il malato avverte, rendono la malattia ancora più difficile da approcciare. Spesso la gentilezza dei modi e la spiegazione delle pratiche ospedaliere da soli possono migliorare la degenza di un malato. Ovvero: basta veramente poco! Mi auguro che tutti i futuri medici possano arrivare a queste conclusioni, e alla accettazione della necessità di costruire con il paziente un rapporto umano, anche senza dover attraversare il trauma di un tumore. Questo film ci è di grande aiuto, ma credo che su questa parte del lavoro, soprattutto se la situazione è diffusa come denuncia il film, sia necessario formare maggiormente tutti i futuri medici, per non rischiare che sia necessario un cancro ad aprire la loro allenatissima mente su una parte così importante della professione che hanno scelto.

 

 

 

 

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16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Di questo film mi è molto piaciuta la delicatezza con cui viene affrontata una storia che si svolge in un reparto di neuropsichiatria infantile, probabilmente anche nell’immaginario collettivo uno dei luoghi più difficili e angoscianti al mondo. Ovviamente il film implica anche una critica sociale allo stato delle cliniche psichiatriche italiane, molto trascurate e malandate. In questo grigio collettivo a combattere con i mali più difficili e incomprensibili, quelli della mente, troviamo un medico premuroso e attento con tutti i bambini e con Pippi in particolare,una bambina che soffre di crisi epilettiche inspiegabili a livello neurologico. Arturo è  un uomo intelligente e paziente che non si lascia scoraggiare dalle difficoltà incontrate e dedica tutto sé stesso e la sua vita alla cura non solo fisica dei pazienti con enorme dedizione. È molto bello in realtà vedere come la clinica diventi per la protagonista un luogo migliore della sua stessa casa,  e osservare come il rapporto con il medico, per quanto tormentato e complesso diventi sempre più rassicurante, anche nel confronto con la sua situazione familiare, come sia davvero costruttivo affettivo e sincero, fino a porre le basi per la sua guarigione. Come può Arturo non essere un esempio per tutti noi?

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Ho trovato interessante e stimolante il processo decisamente fuori dagli schemi comuni che il medico applica nelle sue scelte terapeutiche, basate soprattutto sull’ascolto e sullo studio “profondo” del bambino e delle sue esigenze prima di tutto affettive. La seconda riflessione che mi sento di fare riguarda invece il personaggio di Arturo, estremamente lontano e quasi assente dalla sua vita privata. La professione del medico infatti è sicuramente una scelta di vita non solo lavorativa, in quanto (soprattutto se svolta in maniera eccellente, come il nostro protagonista Arturo) impiega anima e corpo. Tuttavia, come tutti gli uomini, anche un medico ha necessario bisogno di una vita privata che sia soddisfacente, e soprattutto non eccessivamente svuotata o schiacciata dalla professione stessa. Per un motivo molto semplice, che è quello per cui rinunciare o limitare eccessivamente la propria individualità al di fuori del lavoro porta inevitabilmente a perdere di realismo, di obiettività, incidendo infine anche sui risultati che possiamo ottenere

 

 

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30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

 

Ancora freddezza e negatività nel rapporto medico paziente in questo film piuttosto forte che descrive l’epopea del cancro. Sicuramente questo film risulta istruttivo e dotato di un crudo realismo, soprattutto sulla brutalità dei trattamenti a cui la protagonista si sottopone. Devo dire che il film non mi ha entusiasmato, soprattutto per la generalizzazione svolta sul personale ospedaliero, dal primario agli specializzandi che addirittura ridono degli effetti del trattamento chemioterapico di Vivian. L’eccezione riguarda solo l’infermiera Susi che appoggia e cura con amore la protagonista. Quasi impossibile credere che in un reparto oncologico si trovino medici tutti estremamente negativi, interessati alla cura e alla terapia prima ancora che alla malattia e ai suoi effetti, per non parlare del paziente in quanto essere umano. Anche la protagonista, pur essendo un personaggio molto forte e interessante, non mi ha entusiasmato, per l’estrema freddezza nella reazione alla malattia,anche se certamente può essere fisiologica, come una trincea nei confronti della malattia. Forse l’unica riflessione veramente importante deriva dall’accettazione che la razionalità e l’intelligenza umana, sia intesa come terapia d’urto, sia come reazione della mente, a volte non bastano, e si rendono necessarie la compassione, la sensibilità e l’amore.

 

 

 

 

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

 

Certamente questo film propone una visione del medico terrificante. Credo che imparare ad assistire e trattare con i malati terminali sia una delle parti più complesse della professione. È un percorso molto difficile nel quale ogni individuo deve crescere,del quale deve trovare il senso e definire l’approccio più corretto per sé e soprattutto per chi soffre. Non è nemmeno giusto come già ho sostenuto, che il processo educativo “psicologico” del medico venga lasciato totalmente a sua discrezione, come accade ancora oggi. Compito del medico è sicuramente trovare un equilibrio tra la spinta verso lo studio e l’approccio a nuovi metodi terapeutici da un lato, e la cura della sofferenza del malato dall’altro, senza dimenticare l’importanza del rispetto anche della privacy e delle scelte dell’individuo. La freddezza di un dottore è per tutti una sensazione spiacevole.

 Anche se il medico deve certamente tutelarsi e mantenersi lucido, e quindi non partecipare eccessivamente del dolore del paziente, se l’umanità di chi abbiamo davanti non ci interessa più, a che fine abbiamo scelto questa professione? 

 

 

 

 

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