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Brunelleschi Sara

Page history last edited by Sara 12 years, 11 months ago

PORTFOLIO

Ad ogni incontro devi esprimere i tuoi pensieri sul film proposto editando questa pagina e scrivendo nello spazio sotto a ciascuna domanda

 


12 ottobre 2010: CARO DIARIO di Nanni Moretti, Italia 1993 (IV episodio: Medici) 30'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Esordisco con un applauso per l'idea del Cineforum; mi è piaciuta da subito. Dopo aver visto il film e aver partecipato alla discussione che ne è scaturita, l'ho apprezzato ancora di più. Non conoscevo "Caro Diario", ma è stato una piacevole scoperta: Nanni Moretti è capace di portare sul grande schermo la vita di tutti i giorni. Ad esempio, non ho potuto fare a meno di sorridere all'inquadratura delle ricette mediche: illeggibili! Mi ci sono ritrovata, proprio come quando il medico, terminata la visita, ti spiega cosa&quando devi prendere, tu stai lì ad anniure, poi arrivi a casa e ti sei già dimenticato tutto. Suggestiva anche la scena della prima visita: il paziente è lì, davanti al medico, in situazione di evidente imbarazzo (è semisvestito, malato, e si sente intellettualmente "inferiore"), e quest'ultimo svolge i suoi compiti in silenzio, senza spiegare alla perona che ha di fronte che cosa stia combinando sul suo corpo: poiché presto servizio di volontariato alla Misericordia, guardando quella scena mi sono tornate in mente le persone con più esperienza di me che ogni volta sottolineano l'importanza di instaurare un dialogo con l'assistito, domandando se sta bene, spiegando via via che cosa facciamo. 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Sono rimasta colpita dal fatto che il paziente si rechi da medici "famosi", o da quelli consigliati da amici: non ho potuto fare a meno di pensare che sembrava dovesse andare al ristorante piuttosto che ad una visita medica!

Ho trovato interessante la discussione sull'autoreferenzialità: purtroppo è vero, ai medici manca l'umiltà. Dopo anni e anni di studio, nessuno vuole ammettere di non saper spiegare qualcosa. E' anche vero che ciascuno è abituato a curare più o meno sempre le stesse patologie, e quindi ognuno ha i "suoi" medicinali preferiti. Certo è giusto chiedere consiglio ad un collega e farsi aiutare nella diagnosi, come facevano i medici cinesi. Essi però sbagliavano nel parlare nella loro lingua, escludendo il paziente dalla discussione nonostante riguardasse lui in prima persona! E dev'essere difficile persino riconoscere l'errore di un collega, poiché questo diminuisce la stima che la "gente comune" ha della casta e quindi indirettamente anche il prestigio personale.

Ho riso quando il Presidente dell'Ordine dei Medici di Famiglia ha ricordato che, da studente, era convinto che LUI sarebbe stato un medico migliore di quelli che lo hanno preceduto: era la stessa cosa che pensavo io, e forse molti altri. Sicuramente cercherò di non perdere di vista la persona che un giorno si siederà nel mio studio: accanto ai macchinari moderni metterò un bel quardo, terrò i volumi di medicina scientifica tra un manuale di psicologia e un vecchio romanzo. 

 


19 ottobre 2010: UN MEDICO UN UOMO di Randa Haines, USA 1991, 124'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Bel film, davvero. Trama un po' scontata, in realtà: si capisce subito che il personaggio principale sarà protagonista di una profondo cambiamento, come nei romanzi di formazione ottocenteschi, col rischio di cadere sul peripatetico. Ma questa è l'unica critica che mi sento di fare; tanto di cappello alla splendida interpretazione di William Hurt, affiancato da una degna Christine Lahti. Ed è proprio l'evoluzione del rapporto tra marito/malato e moglie che mi ha maggiormente colpito: inizialmente i due conducono una vita felice (pare), nonostante lui sia poco presente a causa del suo lavoro (la madre: "Tesoro, vai a salutare papà!". Il bambino alza la cornetta del telefono: "Ciao papà!"). Tuttavia quando scopre di essere malato Jack Mackee (anzi, il Dr. Mackee) decide di non dirlo alla moglie. Razionalmente una scelta del genere è incomprensibile: perché escludere chi potrebbe aiutarti in un momento di tale bisogno? Ci è stato spiegato che di fronte ad una notizia del genere ci si comporta come nell'elaborazione di un lutto, e che questa è la prima fase: negazione. La moglie tenta di stargli vicino, vorrebbe accompagnarlo alle visite: si sente impotente di fronte alla malattia, ma è determinata ad affrontarla insieme al marito. Bellissima la scena in cui lei lo guarda dormire: le si legge negli occhi il terrore di perderlo; gli sfiora la gola con le dita, come se con quel gesto volesse guarirlo.

Ma il dottor Mackee tiene tutti a debita distanza, siano essi pazienti da ricucire o la propria famiglia; si sente autosufficiente ed egoisticamente crede che non gli serva l'aiuto deli altri (ad esempio rifiuta di salire sulla sedia a rotelle: lui è il Dottor Mackee, non ne ha certo bisogno!). Una condotta del genere però, porta anche chi lo ama ad allontanarsi da lui. E quando si rende conto che nella vita non è possibile contare solo su di sé, ma prima o dopo tutti hanno bisogno di qualcun altro, prova ad "abbassare le braccia"; e scopre che -per sua fortuna- gli animali non hanno paura di posarsi sullo spaventapasseri.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Credo che sia davvero difficile per un medico riuscire a trovare il giusto equilibrio tra il distacco dal paziente, che permette un giudizio freddo e razionale, e l'interesse per la persona, che spinge a voler porre al più presto termine alla sofferenza. Il dottor Mackee è tecnicamente bravo, ma non si preoccupa dei risvolti fisici/psicologici che i suoi interventi possono causare sul paziente, DOPO l'operazione (ad esempio non esita a fare una battuta di pessimo gusto sulla vistosa cicatrice che una sua paziente ha sul petto). Per lui il post-operazione non esiste: ha già fatto il suo, di cosa altro deve interessarsi? Quando però si trova dall'altra parte della barricata e riconosce nella dottoressa che deve operarlo se stesso in gonnella, fugge. E va a rifugiarsi da un dottore magari meno quotato, ma più attento alla persona che si trova sotto il suo bisturi, e alla vita che dovrà condurre. Il cambio del medico curante ha quindi anche il significato di un allontanamento dalla propria filosofia, che fino a quel momento gli era sembrata naturale e ottimale, e della voglia di cambiare il modo di relazionarsi ai pazienti -o meglio alle persone- che dovrà curare. Ancor di più dopo aver scoperto che il bisogno che il paziente ha del medico è reciproco: ogni medico ha egoisticamente bisogno di sentirsi utile, di aiutare gli altri, della dimostrazione che tutto quello che ha studiato nei lunghi anni all'università è servito a qualcosa.

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

  "Ogni relazione nasce da un bisogno. Se non si riconosce quel bisogno, non si intrattiene nessuna relazione."

                                                                                                                           Prof. A. Formigoni


16 novembre 2010: IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi, Italia 1993, 96'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Cinematograficamente parlando, non mi ha entusiasmato. Scorreva male. Certo la bravura degli attori (soprattutto Castellitto e la giovane protagonista) hanno reso la proiezione meno pesante. A discolpa di regista & company, c'è da dire che il tema non era dei più semplici. La medicina psichiatrica è ancora oggi poco conosciuta e la figura del malato mentale fa quasi "paura": egli è guardato con compassione in alcuni casi, con disprezzo negli altri. I genitori di Pippi quasi si arrabbiano quando Arturo, lo psichiatra che cura la figlia, li informa che le crisi epilettiche da cui è colpita non hanno origine neurologica. Questo perché preferiscono pensare che la figlia sia gravemente malata piuttosto che pazza: è socialmente più facile da accettare e non loro si sentono in colpa. Per quanto riguarda il ruolo del medico, trattare con persone affette da disturbi mentali non è proprio la cosa più semplice di questo mondo. Dei pazienti affetti da una patologia magari grave, ma somatica, sono solitamente benevolenti verso il medico e grati per le sue cure perché vogliono guarire; invece spesso i malati psichiatrici non aiutano il medico perché "non vogliono" guarire, anzi a volte non ammettono neppure di essere malati e di aver bisogno d'aiuto. L'unico modo per ottenere risultati è stare dalla parte dei pazienti, scendere dal piedistallo dorato su cui ti ha appoggiato la laurea e condividere un po' del dolore delle persone che devi curare (bellissima la metafora del granchio che si nutre di fango), perdonare i loro sbagli e soprattutto far capire loro che non sono soli. Difatti è così che si sente Pippi - figura molto affasciante di una ragazzina matura per la sua età e intelligente - : sola e profondamente spaventata. Quando Arturo le chiede se ha una cotta per qualche amico, lei risponde con rabbia: "Chi, io? Io non posso." Si sente diversa e inadeguata, ha paura di non essere accettata (quando mostra lo speciale copricapo che deve obbligatoriamente indossare a scuola), crede che nessun altro possa capire come si sente. Anche se questo accade un po' a tutti gli adolescenti, o in generale a chi sta attraversando un brutto momento.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Sono entrata a Medicina per fare lo psichiatra ma... il film mi ha quasi fatto passare la voglia!

Arturo, il protagonista maschile, è un ottimo medico e fa il suo lavoro con passione, nonostante i mezzi siano scarsi e il gruppo di lavoro poco affiatato e soprattutto poco motivato. La giovane Pippi invece è scettica verso la categoria dei medici: rifiuta di prendere le medicine, non vuole che le mettano le mani addosso per sottoporla all'elettroencefalogramma, addirittura sputa in faccia ad Arturo sebbene lui cerchi solo di renderla un po' meno infelice. In quel momento, e in molti altri, l'unica cosa che avrei pensato se fossi stata io il medico curante sarebbe stato "ma chi me lo fa fare? Perché devo perdere tempo ed energie dietro a persone che si dimostrano così ingrate?" Ed ogni volta che lui ingoiava ed andava avanti, continuando a fare il suo lavoro nell'unico modo in cui ne era capace, non potevo far altro che provare una grande ammirazione per quell'uomo. Perché ricordiamoci, un medico è prima di tutto un uomo, e non un supereroe con poteri magici. Dal film infatti emerge una figura di medico inusuale per la televisione e anche per l'immaginario comune: quello del dottore non sembra un mestiere prestigioso, che dà potere e rilievo sociale, soldi, rispetto, bensì un impiego che non ha orari e che disturba il confine tra vita privata e vita lavorativa. Arturo dimostra una grande abnegazione: trascura completamente la sua vita tanto da non ricordarsi nemmeno il giorno del suo proprio compleanno. Magari il suo approccio è eccessivo, tuttavia la visione di questo film tmi invoglia a studiare per diventare un medico e una persona migliore, perché ti sbatte in faccia quanto ciò che a volte crediamo importante sia invece effimero o futile, e mostra le grandi soddisfazioni che il mestiere ti può riservare - come il sorriso e l'eterna gratitudine di chi non si aspettava più niente dalla vita, "il motivo per cu ti alzi ogni mattina".

 


30 novembre 2010: LA FORZA DELLA MENTE di Mike Nichols, USA 2001, 99'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Premetto subito che il film non mi è piaciuto (ed è un eufemismo, giusto per non risultare troppo sgarbata). Non ho gradito né il modo in cui era diretto, nè la mancanza di trama, e neppure i tentativi di commuovere le persone con scenette patetiche, per poi fingere cinismo facendole definre "patetiche e sdolcinate" alla stessa protagonista. Mentre altri tiravano fuori i fazzoletti, io mi sono appisolata. -.-"

La paziente mi stava estremamente antipatica: ha una vita sterile e tristissima; niente parenti o amici, figuriamoci un uomo. Una zitella inacidita. Le diagnosticano un tumore, e lei niente. Durante la discussione è venuto fuori che spesso le persone reagiscono con distacco a notizie di questo tipo, ma a me sembrava più che altro che lei volesse mantenere la maschera della donna forte e indipendente. Ovviamente, finisce per pentirsene, e dice "avrei dovuto fare più domande": lei non le ha fatte e d'altra parte, nessuno le ha detto niente, così ha tenuto duro fino a che arriva un momento in cui si perde il controllo, poiché l'essere umano non è né onnipotente né tantomeno indipendente. 

Così prova a fare qualche domanda al medico: "Le capita spesso di perdere un paziente?" [sorriso] "Lo chiedono tutti, soprattutto le donne"

"Come si comporta con pazienti apprensivi, che hanno paura?" "In che senso?!" Chiaramente, non sono queste le risposte che desiderava. 

Dice poi "Prima insegnavo, ora sono insegnata". Una frase terribile: si sente inutile e disarmata, lei che per tutta la vita ha studiato la Vita e la Morte; il problema è che la Morte, grandiosa ma quanto mai astratta, è molto diversa dalla morte, subdola e sempre troppo precoce, e spaventosa. Essere intelligenti, non basta per saperla affrontare, c'è bisogno di affetto e gentilezza, e talvolta non bastano neppure quelli.

 

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

I medici nel film sono assolutamente cattivi modelli per noi studenti di Medicina. Il primario, parlando con la donna a cui sta diagnosticando una malattia terminale, dice che i suoi studenti non sono capaci di guardare, ed in effetti è così; non che lui sia stato un gran maestro, per la verità. Distaccato, e interessato ai pazienti esclusivamente come "fonti di dati" per la sua ricerca. Gli specializzandi sono tremendi: durante il giro di visite, non mostrano alcun riguardo per la persona che si trovano di fronte; ridono, scherzano, sfoggiano il loro sapere in una gara a chi fa miglior figura davanti al primario. Addirittura Jason, il ricercatore che la segue, ne parla al passato ancora prima che muoia, una mancanza di sensibilità davvero orrenda.

Inizialmente non si rende conto del dramma che la paziente sta affrontando, ma è dispiaciuto quando lei se ne va. Cerca di farsi coinvolgere il meno possibile, cerca di proteggere inconsciamente se stesso dalla sofferenza; esce dalla stanza a testa bassa, evita di trascorrere del tempo con lei, oltre a quello strettamente necessario ai controlli clinici. 

Certo è che stare vicini ai pazienti in stato terminale costa un grande sforzo emozionale, e che non tutti sono disposti ad affrontarlo. In fondo si diventa medici per aiutare gli altri, non per soffrire noi stessi. Aiutare gli altri però, significa anche cercare di rendere meno terribile la sofferenza di chi non siamo in grado di guarire: quando la medicina fallisce, è necessario compensarla con la gentilezza e l'amore. 

 

 

Allega tutte le integrazioni che vuoi (articoli di giornale, riferimenti a film, documentari o video, citazioni da libri, poesie, immagini, siti web, ecc.)

 

Holy Sonnet #10

 

Death, be not proud, though some have called thee 
Mighty and dreadful, for thou art not so ; 
For those, whom thou think'st thou dost overthrow, 
Die not, poor Death, nor yet canst thou kill me. 
From rest and sleep, which but thy picture[s] be, 
Much pleasure, then from thee much more must flow, 
And soonest our best men with thee do go, 
Rest of their bones, and soul's delivery. 
Thou'rt slave to Fate, chance, kings, and desperate men, 
And dost with poison, war, and sickness dwell, 
And poppy, or charms can make us sleep as well, 
And better than thy stroke ; why swell'st thou then ? 
One short sleep past, we wake eternally, 
And Death shall be no more ; Death, thou shalt die. 

Morte, non essere fiera, sebbene alcuni ti abbiano chiamata
potente e terribile, perchè tu non lo sei;
poichè coloro che tu pensi di sconfiggere,

non muoiono, povera morte, ne tu mi puoi uccidere.
Dal riposo e dal sonno, che non sono altro che tue immagini,
(viene tratto) molto piacere, quindi da te un piacere molto maggiore si deve trarre,
e più in fretta i nostri miglior uomini se ne vanno con te,
riposo per le loro ossa e liberazione dell'anima.
Tu sei schiava del destino, del caso, dei re, e degli uomini disperati,
e convivi con il veleno, la guerra e la malattia,
e il papavero o gli incantesimi ci fanno dormire altrettanto 
e meglio del tuo colpo; allora perchè ti gonfi?
Dopo un breve sonno, ci svegliamo per l'eternità,
e la morte non esisterà più; Morte, tu morirai.

 

 


22 marzo 2011: MEDICI PER LA VITA di Joseph Sargent, USA 2004, 110'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

È molto bello, mi ha fatto venire la pelle d'oca... e una gran voglia di diventare cardiochirurgo! 

Ovviamente è piuttosto romanzato; dal film sembra tutto molto semplice, a partire dallo studio individuale di Vivien per arrivare al modo in cui il dottor Blalock e il suo assistente riescono senza troppi sforzi nei loro esperimenti. Immagino che quello che accadde realmente fu costellato di qualche insuccesso, prima della buona riuscita. Ma è anche vero che sarebbe stato decisamente troppo noioso, raccontarlo in un film! Infatti si punta soprattutto a sottolineare le difficoltà che ebbe Vivian, senza una laurea e con la pelle troppo scusa per la classe agiata americana degli anni Quaranta, per fare in modo che il suo lavoro venisse riconosciuto. Certamente ciò che contava allora e che conta ancora oggi è che la chirurgia faccia progressi e sia in grado di salvare vite umane, ma anche la gratificazione personale è fondamentale in quanto è uno sprone a fare di meglio. Infatti il bello della ricerca è che non esiste la parola "fine": ottenere un risultato positivo, trovare una cura, non implica il termine degli studi; c'è sempre qualcosa che può essere migliorato, un particolare che può essere approfondito.

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Come ho già detto, la visione del film mi ha fatto pensare all'idea di prendere la specializzazione in Chirurgia. Però mi sono venuti anche molti dubbi: chirurghi si nasce, o lo si diventa? Cioè, a che serve studiare e studiare se poi non si hanno le "mani buone"? Il dottor Bonetti mi ha rassicurato dicendo che spesso basta fare molta pratica, come per tutte le attività manuali.

Poi mi sono ritrovata a pensare che spesso la soluzione non è così semplice come appare nel film; anzi, non sempre si possono risolvere i problemi con un intervento chirurgico. Cosa si fa se non arriva l'intuizione, l'illuminazione? Credo che sia importante ascoltare il paziente, chiedergli come si sente e cosa lo fa sentire meglio, proprio come fa la dottoressa Taussig, che fa stare i suoi piccoli pazienti in posizione fetale. Infatti oggi disponiamo di tecnologie avanzate per il recupero dei dati clinici, ma il recupero di informazioni dal paziente stesso è importante dal punto di vista psicologico, non foss'altro che per farlo sentire "importante" e considerato, e non solo come un manichino a cui attaccare i macchinari.

Dal film emerge anche il problema del rischio chirurgico: il dottor Blalock crede in ciò che fa e porta avanti un'operazione che i più consideravano impossibile anche solo dal punto di vista teorico. Purtroppo e per fortuna in chirurgia c'è bisogno di avere il coraggio di affrontare i rischi. Oggi però è sempre più difficile farlo, perché i pazienti, e soprattutto i parenti dei pazienti, pretendono la guarigione completa e assoluta, come se il medico fosse una macchinetta incapace di errori e possedesse una bacchetta magica. Questo è ovviamente impossibile, e rende ancora più arduo il lavoro dello sperimentatore.

 

19 aprile 2011: PATCH ADAMS di Tom Shadyac, USA 1998, 115'

 

Che ti senti di dire dopo aver visto questo film?

Durante la discussione seguita alla proiezione del film, ho sentito gente lamentarsi del fatto che "è tutto un'americanata" e che "la vita reale non sarà mai così", e ho avuto voglia di rispondere: ma allora andate a guardare uno di quei film sconosciuti che fa tanto radical-chic in modo che poi vi verrà voglia di tagliarvi le vene tutti insieme da quanto è noioso!

Ma poi non ho detto niente per amor del quieto vivere.

La dottoressa de Mennato ha acutamente osservato che i professori vogliono studenti pieni di passioni e infervorati dalla giovane età; allo stesso tempo, però, pretendono che passiamo la maggior parte del nostro tempo sui libri. Yeah! Noi studenti di Medicina sì che ci godiamo i nostri 20 anni! Come coniugare le due cose?

Beh, la proiezione di Patch Adams ha aiutato; è un film MERAVIGLIOSO. Il migliore della serie di Cin@med. Questo sì che ti mette voglia di fare il dottore! Di aiutare le persone, è un film che ti aiuta a rispondere alla domanda: ma perché spreco le mie giornate sui libri? Per sentire quel fastidiosissimo dolore all'osso sacro, dovuto allo stare seduti 10 ore al giorno?! No, perché un giorno sarò come Patch Adams. Magari un po' meno anticonformista, ma nel mio piccolo aiuterò gli altri a stare meglio.

E poi fa sganasciare dalle risate. E ridere aumenta la produzione di endorfine e serotonina, ecc ecc...

 

La visione del film che riflessioni ha indotto sulla tua idea della professione medica?

Fare il medico significa salvaguardare la salute migliorando la qualità della vita, e non allontanando la morte.

È venuto fuori un punto molto interessante durante la discussione, e cioè se sia più importante la qualità o la quantità della vita. Meglio un medico stronzo, ma capace di curarti e di salvarti la pelle, o uno che ti ascolta e che ti fa "morire dalle risate"? 

Io credo che, come spesso accade, in medio stat virtus (ci vorrebbe il congiuntivo, lo so, ma in latino proprio non me lo ricordo). Di primo acchito, infatti verrebbe da dire che sicuramente conta di più la qualità; ma cosa racconti se il tuo paziente, malato terminale, è solo un bambino? "No, tranquillo, ciò che conta è che tu sia stato felice. Non importa cosa avresti voluto fare da grande". 

È anche vero però, che è inutile vivere fino a 90 anni se si è profondamente infelici. Ci si può, a quel punto, rifiutare di vivere. È ciò che accade alla signora che per te settimane non mangia: che le importa di morire, se non trova differenze significative tra la sua vita e quella di un moscerino? Ed ecco che interviene Patch: la aiuta a realizzare il suo sogno, per quanto improbabile, di fare un bagno negli spaghetti!

Le persone come lui hanno un dono: riescono a creare uno speciale feeling con gli altri, e non si vergognano di essere presi per degli idioti. Quando Patch chiede a Carin di indossare il naso rosso, lei è riluttante perché si vergogna, ha paura di ciò che potrebbero pensare gli altri se la vedessero. Dice "io non sono come te. Voglio il camice bianco, il riconoscimento. E ho paura, una paura matta". Anche io sono così, la maggior parte delle persone è così; ma per fortuna esistono persone come Patch che sono in grado di trascinarci nelle loro follie. 

allora, forse non tutti siamo in grado di far ridere i nostri pazienti; non per questo però dobbiamo mostrare pregiudizi verso chi ci riesce, solo perché ne siamo invidiosi. Dobbiamo trovare l'umiltà di chiedere il loro aiuto, chiedere loro di insegnarci.

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